giovanna bonasegale - mariano filippetta : la corrispondenza delle armonie

Giovanna Bonasegale



Mariano Filippetta, la corrispondenza delle armonie.





Lo spettatore, troverà sempre qualcosa di ‘anomalo’ in un oggetto che assomiglia a quello che dice di rappresentare, ma che se ne distacca per forma, per colori, per tecnica.

Dipinto? Dunque “quadro”. Ha tre dimensioni? Allora “scultura”. Oppure fotografia, istallazione, video, e molto altro ancora.

In qualche modo non abbiamo ancora recepito la lezione di Magritte. Eppure lui ce lo ha detto chiaramente: questa non è una pipa, questa non è una mela.

In altre parole, nell’arte visiva contemporanea cerchiamo ancora i canoni dell’arte classica. Sarà l’effetto Narciso, che è più agevole preferire a quello Medusa! Certo è apparentemente più semplice specchiarsi in un’opera, nella sua bellezza, piuttosto che sentirsi avvinghiato dai tentacoli di una medusa. E’ più rassicurante, si pensa di farne una lettura più approfondita; si ammira il tutto, insieme con ogni minimo dettaglio. Ci si riconosce almeno nell’aspirazione alla ‘bellezza’.

Eppure è un paradosso ammirare l’arte figurativa antica o moderna, pensare addirittura di comprenderla, quando non si conoscono i motivi che l’hanno prodotta: la committenza, la destinazione, il periodo storico in cui è stata eseguita, il contesto storico-artistico, le frequentazioni dell’artista, cosa leggeva, con chi parlava, con chi corrispondeva, che cosa in definitiva voleva veramente dire, e così via.

Insomma vogliamo illuderci di capire. Ci accontentiamo di quello che vediamo.

Un’opera d’arte contemporanea, invece, spesso non ci accontenta. E allora andiamo a cercare il messaggio paravisivo.

Qualcuno, oggi, mi sa dire quale era il messaggo preciso della Gioconda o delle varie versioni della Vergine delle rocce?

Mi si può rispondere che le opere di Leonardo sono belle e invece, spesso, quelle di arte contemporanea raffigurano temi o soggetti incomprensibili, accostamenti bizzarri e per lo più offerti quasi con arroganza allo spettatore, che rimane lì, attonito, a interrogarsi e spesso preferisce pensare: “questo lo so fare anche io”.



Guardiamo e tentiamo di leggere le opere di Mariano Filippetta. Tecniche e materiali diversi, ma tutti tratti dalla nostra quotidianità. Un territorio conosciuto, che attraversiamo tutti i giorni: capelli, colori, fotografia, olio, mare, una sedia, volti.

Immagini note, ma ferme, immobili, fissate sotto una cornice di plexiglas, quasi a volerle racchiudere in un’assenza di tempo e di luogo, come fossero simboli di un paesaggio della memoria che appartiene a ciascuno di noi.

Un paesaggio composto di archetipi, che Mariano ci riporta davanti agli occhi senza circoscriverli in un racconto. Ognuno racconta se stesso, ma dialoga, parla con l’altro, aggiunge o toglie qualcosa, ci indica un percorso da seguire, ma anche una provenienza o meglio un’appartenenza.

Facile prendere oggetti comuni o fotografarli, assemblarli, metterli uno accanto all’altro, aggiungervi colore e presentarli sotto forma di opere?

No, non è facile. Dentro quegli oggetti c’è un frammento della nostra storia individuale e Mariano ce la offre quasi come l’anello di congiunzione tra un visione privata del mondo e quella oggettiva, estetica, che dovrebbe appartenere a tutti.

Che senso avrebbero altrimenti quei capelli di donna che attraversano un piano cromatico uniforme? Si sciolgono in infiniti reticoli o in figure ellissoidali fino ai bordi dell’opera. Sembra che vogliano uscire dallo spazio oppure che vi siano stati costretti dentro. In un modo o nell’altro, appoggiano su una superficie liscia, levigata nella quale potrebbero perdersi; al contario mantengono una identità forte, che a tratti addirittura oscura il fondo di cromìa omogenea sul quale sono adagiati.

E quella sedia di legno rovinata, adagiata sulla battigia di una spiaggia non definibile geograficamente – potrebbe trovarsi in qualsiasi parte del mondo – sulla cui spalliera è appoggiato un dipinto, più azzurro dello stesso mare?

Un rettangolo che ci impedisce di guardare oltre, che ostruisce in qualche modo il soggetto dell’opera, ma che ci richiama ad altre chiusure, fino a quando non ci rendiamo conto che la sua ombra si poggia sulla seduta e confluisce nelle piccole onde di un mare tranquillo: fino a unirsi alle ombre di quelle onde. Un oggetto ‘altro’, prodotto e messo lì dalla mano dell’uomo, si fonde, attraverso la luce e il colore, al grande elemento naturale.



Sulla superficie del dipinto, capelli ondulati, anche loro si mescolano con le onde, anche loro fanno parte di un tutto.

Lungomare. Due particolari di un volto sovrapposti, due labbra che appena accennano a socchiudersi, lasciano trasparire il colore blu del mare. Due sbavature di onde che affiorano dal fondo dell’opera e si intersecano con le fattezze delle labbra. Le fotografie del particolare del viso sono pressoché identiche, ma la valenza di quel blu non è simile: rarefatta, più aerea qulla superiore, più densa e più fluida quella inferiore.

A dispetto dell’immagine fotografica, nulla può essere uguale a se stesso, specialmente quando la presenza dell’uomo potrebbe incombere sulla natura, che comunque rivendica la sua presenza forte, sicura di sé e semmai fa emergere la fragilità e il dubbio in queste labbra, che quasi perdono identità.

Mediterraneo. Olio sospeso su acqua di mare, racchiuso in una cornice di plexiglas. Le diverse tonalità del giallo denunciano la provenienza dell’olio, mai uguale nel colore, nella consistenza. Anche qui la presenza dell’uomo è appaiata a quella della natura, a collegare tra loro brandelli pieni di vitalità.

Se l’arte contemporanea pone problemi, ma non li risolve è semplicemente perché non può.

Eppure in queste opere di Mariano Filippetta aleggia una indicazione a un’armonia perduta, o che si sta perdendo, un anelito a guardare oltre o, meglio, a carpire dal quotidiano quanto di più naturale sia possibile, a vedere attraverso oggetti e cose semplici quello che spesso siamo abituati a tralasciare.

Se accettiamo il suo messaggio ci renderemo conto che non è subliminale, incoscio, criptico. E’ l’invito a fermarsi, a contemplare, a cogliere l’essenza di ciò che ci circonda.

Ma è anche l’affermazione determinata e chiara che tutto ciò si può ottenere attraverso l’arte visiva, che sia figurativa, tradizionale o che rompa certi schemi, non ha alcuna importanza.




giovanna bonasegale





Giovanna Bonasegale negli anni Ottanta ha diretto la Pinacoteca Civica di Jesi e subito dopo quella di Ancona.

E’ stata direttrice della Galleria Comunale d'Arte Moderna e Contemporanea di Roma, del Centro Ricerca e Documentazione Arti Visive, nonché di alcune collane editoriali, sulla città di Roma e sull’arte moderna e contemporanea.