Ferdinando Scianna

Ferdinando Scianna

Bagheria (Palermo) 4/7/43

È il suo fotografare, quasi una rapida, fulminea organizzazione della realtà, una catalizzazione della realtà oggettiva in realtà fotografica: quasi che tutto quello su cui il suo occhio si posa e il suo obiettivo si leva obbedisce proprio in quel momento, né prima né dopo, per istantaneo magnetismo, al suo sentimento, alla sua volontà e - in definitiva - al suo stile.
Leonardo Sciascia

In pillole:

Ferdinando Scianna, nasce a Bagheria, in Sicilia nel 1943. Compie all’Università di Palermo studi, interrotti, di Lettere e Filosofia. Nel 1963 incontra Leonardo Sciascia con il quale pubblica, a ventun’anni, il primo dei numerosi libri poi fatti insieme: Feste religiose in Sicilia, che ottiene il premio Nadar. Si trasferisce a Milano dove dal 1967 lavora per il settimanale L’Europeo come fotoreporter, inviato speciale, poi corrispondente da Parigi, dove vive per dieci anni. Introdotto da Henri Cartier-Bresson, entra nel 1982,primo italiano, nell’agenzia Magnum.

Dice Scianna che per potere raccontare bisogna avere dentro di se la memoria di un piccolo villaggio
La sua fotografia spesso nasce da quelle ombre così dense, scure...inevitabili per chi è siciliano ed è abituato a quella luce...anzi a chi appartiene storicamente, come vissuto, quel tipo di luce. Si perché ogni fotografo ha giustamente i propri retaggi, la propria storia, la propria formazione. Bresson amava ombre molto più leggibili, delicate, aperte...la sua giornata ideale era una mattinata serena, ma lievemente velata in modo da avere contrasti non esasperati. Scianna ama ombre dure, ed una conseguente luce molto netta. Quasi tutte le sue fotografie nascono dalle ombre, comunque, la luce è solo consequenziale.

«Io guardo in bianco e nero, penso in bianco e nero. Il sole mi interessa soltanto perché fa ombra».
Usa una metafora per dire che la sua lingua madre è, dopo il siciliano, l'italiano, ma essendo stato in Francia molti anni parla e scrive anche in francese.Rapportando il ragionamento alla SUA fotografia dice che parla abbastanza bene il colore ma la sua lingua madre è il bianco e nero.

A proposito di storia...la fotografia di Scianna è ferocemente, indissolubilmente legata alla storia, all'accadimento. Nessuna pretesa di rappresentare concetti, nessuna pretesa di "arte"
Chiarissimo il fortissimo legame con Bresson ( sua ispiratore assoluto, definito non solo come "predicatore" di una certa "fede fotografica"... ma predicatore e Dio allo stesso tempo... la cui filosofia ha "tradito" pochissime volte.

Sognava di diventare fotografo fin da bambino e lo confessò al padre Baldassarre che gli chiese «E che mestiere è?»
Splendida la storia con il padre che disprezzava profondamente l'idea del figlio di diventare fotografo e senza volerlo diede una definizione della fotografia di uno spessore pazzesco
"Il Fotografo ? Quello che ammazza i vivi e resuscita i morti? "
Nel suo paesino, infatti, c'era sempre stato un solo fotografo. Sostanzialmente faceva foto per le lapidi e poco altro. Quando i figli ed i nipoti chiedevano al papànonno anziano di farsi una foto il malcapitato capiva benissimo dove volevano andare a parare..e quindi spesso si rifiutavano con non celata reticenza! Di fatto arrivando alla morte senza una foto adatta alla lapide stessa. Il talento del fotografo, la sua specializzazione, era quello di far sembrare vivi i morti ( ridipingendo a mano gli occhi con notevole maestria). Tuttavia la sua estrema specializzazione, nel corso degli anni, pian piano che la fotografia prendeva piede e diventa più frequente fotografare i viventi per altre occasioni, fece si che la sua fotografia risultasse un po'...lugubre. I vivi parevano cadaverici ed i morti parevano vivi, appunto...

Contrario, fortemente, a considerare la fotografia un'arte.
La fotografia nasce come scienza, non come arte, non si può porre sullo stesso piano della pittura...non rappresenta concetti ma oggetti o eventi. Deve essere legata strettamente alla rappresentazione storica del momento.
Il nodo centrale è la narrazione, appunto. Non ha senso parlare di fotografie belle o brutte. Ma di fotografie che narrano qualcosa...oppure no.
E sicuramente, per poter parlare di qualcosa, tutti devono partire dalla propria storia personale. La base di partenza è sempre e solo questa.
Il mondo scrive l’immagine: il fotografo l’interpreta.”
Perché sinonimo stesso di cultura è scelta. Tutti noi scegliamo, e non solo la fotografie ma i quadri, l’arte, le compagnie, il cibo e facendo fotografia scegliamo un istante piuttosto che un altro. La scelta di tutti gli istanti che hai scelto in anni di vita e di fotografo, ti identifica.”

A cura di Emanuele DAVI