Prose semplici di Davide Morelli

"Prose semplici" di Davide Morelli(scritte per scherzo)

IL FALLITO:
All'improvviso scorgo la sua sagoma nella calca. Scanso i turisti. Mi avvicino e lo saluto. Evito il suo sguardo inquisitore. Osservo il marmo, gli archi e le loggette della facciata del Duomo. Mi volto un attimo e scruto il buffo trenino con le gomme, che trasporta soprattutto cinesi in gita fino al ristorante per l'appunto cinese. Rifletto sul fatto che questi edifici rappresentano tutti i periodi dell'esistenza dei cristiani: la nascita(il Battistero), la vita adulta(il Duomo), la morte(il Camposanto). Almeno così mi ha detto un mio amico una volta. Penso per qualche istante ai bancarellai che vendono souvenir e ai vigili che stanno sempre lì per evitare attentati terroristici. Medito sulle innumerevoli scene di vita quotidiana in questa piazza. Mi metto a pensare a come noi esseri umani percepiamo il tempo. Noi viviamo una realtà caratterizzata dall'eterogeneità degli istanti. Ogni istante è diverso dagli altri perché di volta in volta cambiano il contesto, la situazione, la condizione psicologica. Probabilmente la nostra percezione del tempo è un flusso continuo che non si può in alcun modo scomporre nè interrompere. Quindi lo guardo in faccia. Il volto totalmente inespressivo. È un incontro del tutto casuale. Non mi ricordo più nemmeno per quale dissapore o divergenza smettemmo di frequentarci. Avevo comunque avuto notizie dei suoi successi, del suo matrimonio e della nascita dei suoi figli da un amico in comune. Ora è perfettamente integrato. Guardo i suoi abiti firmati. Nella mano destra tiene le chiavi della macchina. Vedo che è una macchina di lusso. Nell'altra mano ha un telefonino costoso. Conosco alla perfezione le sue contraddizioni: le sue idee progressiste che si mischiano con un darwinismo socio-economico d'antan e con il suo perseguire gli status symbols e le mode del momento. Mi stringe la mano sudaticcia debolmente. Vedo che ha una rosa tatuata sul collo che tempi fa non aveva. Ha anche delle rughe sulla fronte. È stempiato ormai ma in perfetta forma fisica, nonostante faccia una vita sedentaria a causa della professione. Ha più un fisico da bersagliere che da imprenditore. È tutto molto curato, anche le sopracciglia. Mi sembra un po' nervoso. Ha le pupille dilatate. Non so come mai è solo. Esordisce ironicamente. So che mi devo aspettare le sue battute al vetriolo perché lui è l'uomo arrivato ed io il fallito su tutti i fronti. So che è animato da rivalsa e che vuole ferirmi interiormente. Mi chiede senza fronzoli e caustico se ho trovato lavoro, se ho una ragazza e se scrivo ancora inutilmente. Gli rispondo che non è cambiato niente dall'ultima volta che ci vedemmo e che in mancanza di meglio continuo a scribacchiare, a gigioneggiare. Mi domanda perché mi ostini a sacrificarmi in nome di una parvenza d'espressione artistica, che non verrà mai retribuita perché alla nostra età i giochi sono fatti ormai e afferma poi che sono altri i modi di campare. Gli dico che in fondo scrivere è una delle poche cose che mi resta e che mi mantiene vitale per uno strano meccanismo di compensazione. Lui sorride e sarcastico controbatte che sono pochi coloro che nell'arte approdano ad un poco di verità umana. Poi sentenzia che anche gli artisti che raggiungono il successo sono anche essi dei falliti perché non sono niente rispetto a chi salva vite umane, rispetto a chi crea posti di lavoro e rispetto a chi si guadagna il pane travagliando. Continua sostenendo che "L'arte dell'ozio" di Hesse è un libro estremamente dannoso e che ci vorrebbe più calvinismo nella nostra penisola. Quindi afferma che la cultura umanistica è la rovina dell'Italia. Infine mi dice che gli unici veramente furbi sono gli autori di best seller e che uno come me non sarà mai in grado di scrivere un romanzo. Mi metto a pensare che mi piacerebbe scrivere un romanzo ma forse ci vuole troppo enciclopedismo perché in un romanzo si intrecciano la molteplicità dei temi trattati, la polivalenza dei simboli, la complessità esistenziale e psicologica dei personaggi. Mi piacerebbe scrivere un romanzo in cui il protagonista è sempre alla ricerca di un altrove, che lo faccia evadere da schemi mentali abituali e da angosce che lo assillano. Un romanzo sull'ignoto, sul senso dell'ineffabile. Oppure un romanzo in cui il protagonista manifesta la sua partecipazione emotiva ai drammi del mondo e la sua meraviglia di fronte agli orrori quotidiani. Oppure un romanzo sulla frammentarietà dei pensieri, sull'inafferrabilità del vissuto e l'incongruenza tra memoria e vita. Ma in fondo penso che sarebbe una fatica inutile e senza alcun ritorno economico, destinata al fallimento come tutti i miei progetti. Lui aspetta che dica qualcosa. Io rispondo che non so se è colpa mia se non trovo uno straccio di lavoro. Mi dice che ho sbagliato a ritirarmi socialmente, a perdere amicizie perché il lavoro si ottiene anche per conoscenze e pubbliche relazioni. Quindi cambia totalmente discorso e afferma che Pisa la notte non è più vivibile perché è piena di drogati. Io penso che il fenomeno della droga sia antico. Gli sciamani ad esempio usavano le droghe per entrare in contatto con gli dei. Più recentemente artisti come Baudelaire, Burroughs, Huxley utilizzarono le droghe per scardinare le porte della percezione. Nel periodo della controcultura Leary ed altri furono accaniti sostenitori dell'uso di LSD e crearono una sorta di filosofia psichedelica. Oggi l'uso della droga non è più ricerca di conoscenza nè un modo per espandere la coscienza, ma una piaga sociale suicida per molti. Ricordo solo a tale proposito la rete capillare di distribuzione delle droghe grazie a cui gli adolescenti possono trovare ogni tipo di dose ad ogni angolo di strada. Sociologi, psicologi, psichiatri, filosofi, medici si sono interrogati su questo aumento di diffusione di droghe nella nostra società post-industriale, apparentemente evoluta. Rispetto al passato non sono aumentati solo i tossicodipendenti ma anche i consumatori occasionali. Questo aumento di consumo è stato documentato da ricerche, che hanno analizzato l'acqua delle fogne(dato che molta droga viene eliminata dallo scarico dei water) e individuato delle tracce di cocaina in gran parte delle banconote circolanti. Quindi non penso più a niente. Osservo il cielo sgombro da nuvole e infuocato al tramonto. Poi abbasso lo sguardo, che si perde tra la moltitudine di fili d'erba. Quindi guardo in alto di nuovo. I piccioni compiono i loro voli incuranti e indifferenti al viavai frenetico. Mi guardo attorno. Persone di tutte le età e di tutto il mondo rimangono estasiate, imbambolate o spaesate di fronte alle meraviglie artistiche. C'è un costante rumore di fondo.
In molti si fanno la foto. Per qualche istante rimaniamo in silenzio. Forse ha esaurito i suoi argomenti. Io so che vorrebbe ancora infierire e sostenere che la mia vita non ha alcun senso. Ma in fondo chi può dirlo? Anche l'esistenza apparentemente più insensata può da un giorno all'altro acquistare significato.
Restano solo nell'aria il brulichio della gente, il vocio di comitive di studenti guidati più dalla passione amorosa che dall'ammirazione per quella celebre piazza. Un tempo anche noi due adolescenti andavamo in quella piazza per guardare e corteggiare ragazze. Non ci interessava minimamente che quel luogo era anche un grande crocevia dell'arte e dell'umanità. Un tempo ormai immemorabile quando tutto era da fare e tutti e due eravamo degli incompiuti: tutti e due in crisalide. Lui però è diventato farfalla ed io non ho compiuto tutta la metamorfosi. È inutile che io recrimini o che mi metta a pensare ai miei demeriti e ai suoi meriti. Lui allora era affabile e non aveva le certezze di adesso che ha una posizione. Un tempo le nostre discussioni erano fatte da un insieme di intuizioni, salti logici, riferimenti culturali che cercavano di sorreggere le tesi proposte. Un tempo ognuno cercava di parlare all'animo altrui. Ora è completamente differente; ora ha quel che un tempo chiamavano la luna nel pozzo. Un tempo io ero il suo antagonista. Ora forse si sono invertiti i ruoli. Ma perché dovrei invidiarlo? Non è tempo di bilanci esistenziali. Non invidio sua moglie, i suoi figli, il suo lavoro, il suo benessere. Forse invidio solo le sue certezze. Ma forse lui invidia la mia libertà e i miei dubbi. Chi può veramente dirlo cosa alberga davvero nell'animo umano e cosa cova in segreto nel proprio intimo un uomo arrivato o un fallito? Sua moglie gli vorrà bene veramente? E i suoi figli? E i suoi amici saranno veramente tali? Ci congediamo. Tra un mese è Pasqua e sono contento di non averci litigato e di aver evitato incomprensioni. Comunque da domani eviterò i luoghi troppo affollati, anche se familiari. Mi assale la nostalgia quando in quei posti della mia adolescenza mi imbatto in amici di un tempo ormai lontano. Le persone cambiano. È bene che me lo metta in testa ed io le preferisco come erano un tempo. Spesso infatti gli anni non portano maturità e saggezza. Di certo l'innocenza e la curiosità sono perdute per sempre. Di un'altra cosa sono sicuro: anche se un personaggio così avesse la possibilità di darmi lavoro certamente non me lo darebbe. So perfettamente che ha sempre odiato il mio modo di essere. Comunque non rimugino su quel che ha detto. Ci sono cose che non si possono spiegare con la sola logica deduttiva. In questo incontro non c'è stato solo il detto ma anche il non detto, che forse ha prevalso. Qualsiasi relazione tra soggetto e soggetto risente anche di una certa psichicità. Quando io incontro un altro non solo lo vedo, lo ascolto, lo capisco ma lo vivo anche inconsciamente. Comunque un altro giorno è passato. Tra poco mi perderò nel dedalo delle vie del centro. Aspetto che calino le ombre. Aspetto i riverberi dei lampioni. Aspetto che scenda la notte e la luce fievole della luna sia attrice protagonista in questo cielo limpido e tra poco stellato. Forse andrò a bermi una birra seduto sulle spallette dell'Arno sul cui specchio saranno riflesse le luci della città. Cammino e mi metto a pensare che ormai sono un individuo assurdo. Infine rifletto sul fatto che forse la filosofia e la letteratura non sono inutili: male che vada sono consolatorie. Si pensi soltanto a Dante esiliato dai suoi concittadini e a Dostoevskij condannato a morte. Non voglio di certo paragonarmi assolutamente a loro, ma anche loro erano dei falliti nella loro epoca.


UN PUTTO:
È da secoli che vivo in un castello. Sono in un dipinto in una volta del soffitto. A essere esatti mi trovo in un oculo aperto, che raffigura in modo illlusorio il cielo. Sono uno dei putti che si sporge, appoggiato alla balaustra. Me ne sto accanto ad altri putti, una dama, delle ragazze,un vaso che sembra cadere, un pavone. C'è anche un putto intento ad orinare. Io sarò sempre un pargolo nudo alato, messo lì per un fine meramente decorativo e senza un preciso significato simbolico. Dietro la mia figura non c'è alcuna allegoria. Non posso crescere. Resterò per sempre bambino. Sono circondato da una ghirlanda. Non voglio fare disquisizioni sul gioco prospettico e sull'utilizzo del colore, che crea questa illusione ottica. Secondo gli scienziati il cervello vuole prevedere, vuole anticipare i tempi rispetto alla vista e talvolta la percezione si fa sorprendere, ingannare: nascono così le illusioni ottiche. La camera picta è una finzione della pittura. È un classico esempio di trompe-l'oiel. La camera picta sembra tridimensionale. È un capolavoro perché sembra vera. Non voglio dilungarmi su questo perché non sono uno studioso d'arte, ma sono solo la piccola parte di una opera d'arte. Non voglio annoiarvi sulle curiosità e sulle particolarità mie e dei miei compagni. Sono una parte di un capolavoro, però vorrei avere vita propria. Più volte ho maledetto l'azzurro di quel cielo finto dipinto vicino a me secoli fa. E poi perché ha voluto dipingere anche delle nuvole? Ma in fondo anche io sono finto. Sono stanco di essere al centro di una rappresentazione. È noioso stare da secoli al centro di uno sfondato architettonico, anche se probabilmente è uno dei più celebri della storia dell'arte. È da secoli che faccio finta di guardare in basso. I visitatori più sciocchi del castello pensano che da lassù qualcuno li guardi. Sono soltanto una creazione di un pittore, nonostante la genialità del mio creatore. Mi piacerebbe essere meno bello ma più vero. Mi piacerebbe essere pieno di imperfezioni ma reale. Il Mantegna mi ha imprigionato in uno dei suoi affreschi. Ma io non volevo diventare famoso. Il mio pittore mi ha forse chiesto il permesso di raffigurarmi? Potevo essere disegnato peggio? Mi sarebbe piaciuto essere umano, anche se orripilante e di gusto corrivo. Forse alcuni penseranno che sono ingrato perché il Mantegna mi ha fatto proprio bene le manine e tutto il mio corpicino in ogni minimo dettaglio. Ma io sono stufo di lui e di me. Maledirò per sempre questo pittore così grande, precoce e geniale. Mi piacerebbe andarmene un poco a zonzo. Come è grama la vita di un putto mantovano. Mi piacerebbe essere umano, ma non disdegnerei di far parte della mitologia. E poi che cosa ha in più di me quel putto di nome Eros, che se ne va in giro dall'eternità a scoccare frecce e a trafiggere i cuori degli umani?


GLI AMICI:
I due amici si misero a conversare come loro solito. Lavoravano assieme da una vita. Facevano i muratori. In quei giorni stavano costruendo delle villette a schiera. Erano prossimi alla pensione. Non sapevano se era un bene o un male. Forse una via di mezzo e cercavano di chiarirsi le idee parlando tra loro. Uno era sposato con prole, mentre l'altro era scapolo. Godevano entrambi di buona salute.
"Quando eravamo giovani eravamo pieni di vita. Non come adesso."
"Poi quanta immaginazione allora. Pensavamo sempre a tutto ciò che poteva essere e non era stato."
"Invece oggi me ne frego delle città che non ho visto, degli amori che non ho avuto, della gente che non ho conosciuto."
"Un tempo leggevo poeti beat."
"Io ero entusiasta delle Upanishad. Adesso leggo solo il "Libro tibetano dei morti" di tanto in tanto."
"Quanto siamo cambiati."
"Non è più tempo di rimpianti."
"Non è neanche più tempo di eccessi."
"Ti ricordi allora quanto eravamo ingenui?"
"Adesso non potremmo più permettercelo."
"Adesso è una altra stagione della vita. È la maturità."
"L'incoscienza di allora è stata messa da parte."
"Quanti amici si sono persi e buttati via durante quel periodo!"
"Erano gli anni settanta. Quanti morti per droga! Quante morti per overdose!"
"Allora tutti o quasi eravamo presi dal Dio del sesso."
"Ognuno ha messo da parte anche gli ideali di un tempo."
"Si sono integrati in molti. Hanno messo pantofole e si sono imborghesiti."
"Io non ho neanche nostalgia di quei tempi."
"Io forse un poco. Ma è solo questione di un istante e niente più."
"Inutile anche fare recriminazioni."
"Una cosa però la devo dire: gli errori di gioventù si pagano molto cari per tutta la vita."
"Certi errori sono irreparabili d'altronde."
"Eppure già la vita ha molte incognite e non sai mai ciò che riserva il futuro. Basterebbe solo questo."
"Da giovani si spreca salute ed opportunità."
"Neanche si può dire che da giovani tutto è bello e si sta bene. Talvolta la gioventù è un inferno."
"Mai e poi vorrei tornare indietro. Oramai quel periodo me lo sono lasciato alle spalle."
"Certe volte penso che ci vuole coraggio anche ad invecchiare."
La strada provinciale attraversava la pianura. Tagliava in due il loro paese. I due amici continuavano a camminare piano fianco a fianco sul marciapiede. Alla fine giunsero ad uno slargo dove si trovavano un bar, il barbiere, una bottega di generi alimentari, una macelleria. Udirono un uomo che chiamava il cane e una badante russa di un loro vicino intonare canti della sua terra. Era novembre. Era troppo caldo per essere di novembre. La chiamavano prolungamento di una estate anomala. I tordi e le allodole, durante i passi, non erano arrivati. Il clima era impazzito. I tempi stavano cambiando. Quel loro paese stava diventando sempre più un dormitorio perché tutti studiavano e lavoravano nella città. Quella sera stava diventando notte. Era già tardi. I due amici si salutarono. Il giorno dopo sarebbe stata una dura giornata di lavoro.


IL BIBLIOFILO:
Il bibliofilo prima prendeva a prestito libri in biblioteca comunale e poi se erano ritenuti idonei li acquistava anche per la sua libreria. Era sempre immerso nei libri. Non sapeva vivere la vita. Non sapeva stare al mondo. Non aveva alcuna pratica. Era solo teoria. Gli piaceva informarsi. Gli piaceva documentarsi e avere una idea seppur vaga di tutto lo scibile umano. Era un poco snob come tanti intellettuali. Detestava le relazioni sociali. Si limitava al minimo indispensabile di contatti umani. Manteneva una certa educazione: sempre buongiorno e buonasera ai vicini. Provava piacere tattile ed olfattivo a maneggiare libri. Gli piaceva maneggiare ed annusare le copertine, le fascette, i dorsi, i fogli dei libri. Era un erudito. Ma non riusciva a sbarazzarsi dei libri. Era possessivo nei loro confronti. Accatastava libri in ogni angolo della sua casa, che era completamente occupata da questi oggetti. Li accumulava senza limiti. Li aveva anche messi in garage. Li spolverava ossessivamente. Erano perfino dentro gli armadi. Da quando era in pensione era diventato un vero collezionista. Non gli importava molto del valore economico dei libri. Prendeva anche i tascabili ed i libri usati comprati alle bancherelle. Aveva sacrificato tutto per farsi una cultura e per possedere una miriade di libri. Passavano gli anni e lui continuava imperterrito. A volte si rammaricava pensando che tutto quel ben di Dio sarebbe finito nelle mani di un suo nipote ignorante, suo parente più prossimo e perciò unico erede. Continuò così fino a quando i suoi libri gli tolsero il respiro. Ma invece di morire finì in un libro. Era la parola finale di un romanzo di appendice, che non sapeva come era finito nella sua libreria. Lui infatti aveva tutti libri impegnati da vero intellettuale raffinato. Non poteva immaginarsi che quello sarebbe stato il suo contrappasso e che quel libro sarebbe stato il suo aldilà.



LA NATURA
Gli uomini come al solito facevano le guerre in tutte le parti del mondo. Anche nelle società considerate più civili si ammazzavano tra padri e figli, tra condomini, tra estranei per un cipiglio o un apprezzamento volgare ad una ragazza. La natura era stanca del comportamento degli uomini, che inoltre inquinavano tutto il pianeta. Avevano riempito l'aria di smog. Avevano sciolto i ghiacciai. Avevano riempito di plastica gli oceani. Avevano fatto estinguere molte specie animali. Avevano rovinato la foresta amazzonica e lo strato di ozono. Con il loro ingegno erano riusciti ad andare sulla luna ma avevano fatto esplodere anche la bomba atomica. C'erano stati Cristo ma anche Giuda, Montezuma ma anche Cortes, Anna Frank ma anche Hitler. C'era anche parte della umanità che era povera e bambini che morivano di fame. La natura era stanca ed allora diede ordine alla terra di fermarsi ed al sole di scomparire. Ci furono terremoti e maremoti. Quasi tutti morirono. I pochi superstiti morirono successivamente di freddo. Non restò più niente. La natura ora era serena perché non aveva più la minaccia degli uomini, anche se sentiva un poco la mancanza di quei rompiscatole. Fu allora che decise di farli rinascere sulla faccia della terra devastata perché si sentiva troppo sola. Decise di lasciare fare alla evoluzione e alla selezione naturale. Ci vollero milioni di anni. Ma gli uomini ritornarono ad abitare il pianeta violenti e combinaguai come prima. Si chiese allora che cosa avesse sbagliato, ma questa volta li lasciò fare. Lasciò che distruggessero la terra e poi se stessi. Gli uomini negli ultimi giorni capirono che erano legati alla terra a doppio filo, ma ormai era troppo tardi.



LA SOMMATORIA DEGLI ERRORI:
C'era un uomo che amava fissare il cielo. Lo fissava tutte le stagioni, tutti i giorni, a tutte le ore. Non c'era un attimo che lo perdeva di vista. Dormiva poco la notte per non perdersi lo spettacolo del cielo stellato. Stava poco a contatto con gli altri perché era convinto che non lo capissero. Fissava le stelle luminose e splendenti e la luna calante, crescente o piena di notte. Fissava le costellazioni. Ammirava le nuvole e gli uccelli che correvano nel cielo di giorno. Guardava sempre ogni possibile gradazione di colore della volta celeste. Guardava il cielo da ogni possibile angolo del mondo. In particolare gli piaceva sdraiarsi sotto un albero e osservarlo come era tra l'intreccio dei rami. A volte per ammirare il sole si metteva gli occhiali da sole. Si perdeva nel cielo grigio o nero temporalesco quando la pioggia scendeva a catinelle. Si spaventava quando lo vedeva illuminato e squarciato da lampi. Si rallegrava quando il cielo si incendiava con dei colori lividi al tramonto. Si rasserenava quando si stemperava nell'azzurro usuale.
A volte il cielo era di panna. Altre volte era di cemento. Altre volte di pece. Altre volte di smeraldo. Certi giorni di estate le nuvole si assottigliavano talmente tanto che diventavano venature, che sporcavano appena l'azzurro. L'uomo amava così il cielo che gli piaceva a volte vederlo riflesso in una pozzanghera, in uno stagno, nel mare. Il cielo per lui rappresentava l'eterno e l'infinito. Era la speranza che oltre ci fossero dei mondi lontani anni luce e in questi mondi degli esseri migliori di noi umani. Era convinto che gli uomini facessero così tanti errori perché non alzavano abbastanza la testa verso il cielo e non si lasciavano ispirare a sufficienza dalla volta celeste. Così si recò nelle più grandi città del mondo a convincere gli uomini a guardare più spesso il cielo, dicendo loro che il cielo non era mai vuoto e poteva assumere i più svariati significati. Andò da ricchi e poveri, colti e ignoranti, cittadini e contadini ma nessuno lo ascoltò. Concluse così dopo anni di girovagare tra paesi e città che gli uomini non potevano neanche dannarsi l'anima perché l'avevano persa da tempo. Restava da stabilire in quale circostanza. Per l'uomo la situazione era davvero ingarbugliata. Capì allora che il cielo era l'inventario degli sbagli degli uomini, la splendida sommatoria dei loro errori. Il cielo ricordava la storia universale dell'umanità: splendori e miserie. Non capiva altro perché il cielo nella sua globalità era indecifrabile e incomprensibile.

DUE STORIE:
C'era un signore che tutte le volte aveva mal di testa pensava di avere un tumore al cervello. Andava dal medico, faceva tutti gli accertamenti, ma risultava che era sano come un pesce e che non aveva niente. Successe questo molte volte e ogni volta il signore voleva sincerarsi se era malato o meno. Ogni volta non aveva niente. Poi un giorno iniziò a sentire male alla testa ma pensò a una comunissima cefalea. Non fece niente. Non andò dal medico di condotta. Il giorno dopo però il dolore alla testa continuò. Decise di non farsi visitare perché pensava a un banale mal di testa. Alla fine dopo un mese decise di farsi vedere e di fare tutti gli esami. Ma questa volta l'esito fu infausto. Si trattava di un tumore incurabile e dopo qualche mese morì. A questo punto voi mi direte che non si scherza con una malattia così grave come il tumore. Avete ragione! Chiedo scusa. Allora ricomincio da capo la storia. Lo farò in maniera più sintetica. C'era un signore che soffriva d'ansia. Ogni volta che il cuore gli batteva all'impazzata pensava ad un attacco di cuore e chiamava subito l'ambulanza. Gli facevano l'elettrocardiogramma ma gli dicevano che non era niente. Questo accadde molte volte. Poi una volta il suo cuore iniziò a battere forte e lui pensò che era un attacco di panico. Invece era un infarto. Il signore però morì lo stesso. Ma nel caso della storia con il tumore si tratta di cattivo gusto. Sull'ansia e sull'infarto invece non c'è alcuna riprovazione sociale e si può scherzare. Forse perché nel primo caso soffrono di più. Forse perché gli infarti sono più comuni. Inoltre per molti l'infarto è la miglior morte perché spesso non si accorgono di niente. I due signori però morirono lo stesso. Nessuno dei due morì di meno. La morale risaputa è che in un modo o nell'altro il nostro corpo si guasta e non c'è via di scampo. La realtà è che queste due piccole storie sono una storia sola e poi tutte le storie si assomigliano perché siamo tutti collegati. La verità è che si può solo rimandare l'irreparabile.

NOSTALGIA:
Nell'animo bisogna sempre stare attenti che non si sovraffollino gli affetti. Si rischia una sorta di saturazione. All'improvviso una sera come le altre ritorna alla mente una persona cara che ha significato molto a suo tempo. È stata molto importante a suo tempo per noi ma non è vero il contrario: noi non abbiamo significato niente di che per lei. È inutile cercare di scacciarla via. Pensavamo di averla dimenticata ed invece proprio no. Forse siamo ancora degli ingenui. È inutile scacciarla via. È inutile. Non ci si può opporre alla nostalgia. Ci tormentiamo ancora. Si ritorna così indietro di anni e gli anni è risaputo nella memoria non sono che istanti ed ogni anno una serie di immagini ed episodi. Niente di più. Non si contano gli aneddoti, le amenità e le sciocchezze. Quanto eravamo giovani allora! Quanto tempo è passato! Quei giorni non ritorneranno più ed altre considerazioni amare. Si viene a sapere che la ragazza di un tempo si è sposata ed ha un figlio. Ma non si può far niente. Meglio per lei! Era destino. Doveva andare così. Non si può banalmente concludere così per non farsi troppo male. Il grande burattinaio che tiene i fili ha deciso così. Purtroppo qualche persona se ne è andata. Purtroppo qualche persona l'abbiamo mandata via noi volontariamente allora. L'abbiamo fatta scendere dalla nostra corriera qualche fermata fa. Ancora non sappiamo quale sarà la destinazione né quanto carburante abbiamo. Sappiamo che qualche persona è scesa. Allora ci sembrava inevitabile. Ritorniamo indietro con la mente, ma non possiamo tornare sui nostri passi. Forse siamo morti dentro. Forse qualcosa di noi è morto rispetto ad allora. Ma non bisogna confondere questa inquietudine sottile con il dolore vero. Sono altre le cose per cui piangere. La poesia non può servirci in situazioni come queste e poi non siamo poeti. Abbiamo smessso di pensare e non abbiamo più grandi sogni. Abbiamo quasi messo la testa a posto. Si dice così? Siamo più ponderati rispetto ad un tempo. Siamo maturi ormai ma non propriamente maturati. Passiamo in mezzo ai ladri, agli spacciatori, ai drogati. In fondo siamo tutti umani e precari. Domani arriverà presto. Le ombre si assottiglieranno, si diraderanno. Gli ectoplasmi della notte verranno squarciati via dal mattino. Verrà l'alba e con i suoi raggi benedirà tutte le strade e le case. Le piazze si riempiranno di macchine. Il centro pulserà di nuovo come un cuore. Chi ha la croce con un cuore al centro? Chi ha un ciondolo del genere sul proprio petto? Altre cento domande inutili girano nella mente. La croce può avere mille forme. Non è un simbolo come un altro qui da noi. L'amico ascolta. Le belle di notte ci passano accanto e ci invitano a fare un giro con loro. Ma noi proseguiamo oltre. Non è tempo di finire le nostre voglie tra le braccia sbagliate. Non è tempo neanche di pensare troppo agli errori del passato.Camminiamo e andiamo oltre. Ormai la zona più pericolosa della città l'abbiamo passata. L'amico ascolta e fotografa la luna perché c'è una luna bella e grande. All'improvviso passa un treno e distrugge l'incanto. Sul selciato vicino al ponte della ferrovia solo l'eco dei nostri passi. È già ora di rincasare. Verrà il mattino e i mattinieri potranno ammirare le gocce di rugiada sulle ragnatele e i fili d'erba. Noi nottambuli invece dobbiamo stare attenti a non farci investire dagli automobilisti. A dire il vero siamo gufi soltanto questa sera. Non siamo dei viveur né dei bravi ragazzi. Passa il tempo e ci sta stretta qualsiasi definizione. Ma tutto questo in fondo è solo una menata. Siamo amici di vecchia data. Siamo amici di infanzia. Ma non è tempo ormai di voltarsi indietro e sappiamo che il passato sarà certamente di più del futuro, anche se non poniamo limiti alla Provvidenza. Comunque credete a me. Non è il momento di citazioni e di mettere troppa carne sul fuoco. È sempre meglio non rifugiarsi nel vino che è solo una evasione, una fuga dalla realtà. Anche se volessimo siamo impossibilitati ormai dal percorrere questa strada. Abbiamo dei limiti fisici. Lo teniamo presente che la nostra salute potrebbe essere cagionevole. L'importante è smaltire la cena di stasera, digerire e svegliarsi freschi come una rosa. Bisogna essere pratici una volta tanto. Ognuno ritorna alla sua casa. Ci congediamo, promettendoci di rivederci presto. Un'altra serata è andata. È passata via leggera. Sono altri i dolori veri e le cose per cui piangere.




IL SUICIDA:
Ero condannato all'inazione. Ogni sforzo in qualsiasi direzione sentivo che sarebbe stato vano. Mi ero rintanato ogni giorno sempre più nel mio guscio. Aveva eretto un muro con gli altri o quantomeno una parete divisoria nel migliore dei casi. Cercavo una ragione di essere ma non la trovavo, immerso come ero nella mia quotidianità. Forse avevo soltanto sognato di vivere. Il momento più significativo della giornata era quando andavo in macchina con mio padre a fare un giro, conversando amabilmente, sorseggiando acqua gassata, guardando fuori il succedersi dei paesini e le stagioni che coloravano la campagna toscana. Ma non dovevo neanche sottovalutare i periodi di distensione dati dalle camminate verso casa con mia madre. Certe volte mi mettevo a sedere sulla sponda del fiume. Guardavo i riflessi del sole sull'acqua. Fissavo quello scintillio. Contemplavo quello sfolgorio mentre aspettavo di ascoltare lo sferragliare del treno, che portava pendolari, studenti e turisti a Pisa. Rarissimamente venivo interrotto dal guizzo di un pesce, vista e considerata la moria a causa dell'inquinamento. Era in quei momenti che mi chiedevo se la vita non avesse un altro piano di lettura più profondo, un'altra chiave interpretativa più singolare. Ma era solo questione di qualche istante. Poi ritornavo come di consueto nell'ordine logico consueto. Ero un tipo alquanto strano o forse ciò succedeva a tutti, ma nessuno aveva il coraggio di dirlo per non essere scambiato per pazzo. In fondo sono tantissime le idee bizzarre che possono attraversare la mente.La mia vita era però un film muto, in bianco e nero e senza ridolini. La mia vita era un romanzo di cui non ero io il protagonista. Era un romanzo senza trama e di cui non riuscivo a trovare un titolo decente. Come invidiavo quegli scrittori colmi di storie, di intrecci! Come invidiavo quelli che vivevano veramente e potevano raccontare incontri e miriadi di personalità in cui si erano imbattuti! Come invidiavo quegli artisti pieni di immaginazione e di ideazione! Ma forse era tutto inutile. E poi quanto sforzo di ingegno e di cultura per essere letterari, quando la migliore efficacia comunicativa era essere antiletterari e il vero materiale interessante ed importante veramente era extraletterario! E poi tutte quelle parole, che implicavano una riflessione sul linguaggio per raggiungere i vertici più alti della significazione o soltanto per dire che erano troppo soli, troppo tristi o troppo insoddisfatti. Questi romanzieri! Come erano prolissi! Stavo ore ed ore a leggerli nella mia camera, che originariamente era un sottotetto. Fantasticavo. Mi immaginavo altre vite. Mi ripetevo come un mantra: ogni riferimento è puramente casuale. Ma in verità il mio motto sarebbe stato: ogni riferimento è puramente causale, raccontando tutti i soprusi e i colpi bassi che mi erano stati inferti. Ma il pudore e il quieto vivere mi frenavano. Ero in bilico tra realtà e immaginario. Volevo scrivere anche io un romanzo ma in realtà non lo scrissi mai. Un romanzo sulla vita in generale che non trattasse della mia vita, così noiosa ed insignificante. Questo voleva dire che avevo qualcosa che non andava. Ma cosa c'era che non andava? Secondo alcuni due infelicità potevano fare la felicità. In realtà le donne per stare accanto a un uomo per sempre almeno da giovani volevano sentirsi felici oppure sicure. Più mature stavano con un uomo probabilmente per non sentirsi sole. Ma chi poteva dirlo in realtà? Nessuno girava con la verità in tasca perché non c'erano verità tascabili. Quello che potevo dire era che mi ritrovavo solo. Un uomo di mezza età solo. In ogni modo non potevo aspettarmi troppo da ciò che chiamavano amore. Forse avevano ragione i maestri della patafisica: il vero e il falso si annullavano a vicenda. Forse avevano ragione anche quando insegnavano che bisogna sempre notare l'anomalia, il particolare, l'eccezione. La realtà era sempre troppo complessa con le infinite combinazioni, le illusioni ottiche, i brutti scherzi che tirava, le trappole che tendeva. Insomma la mia vita scorreva da sé, procedeva parallela al mio essere. Forse la verità era vicina a noi e allo stesso tempo irraggiungibile per nostra viltà, per i nostri conformismi, per le nostre abitudini. Forse più che atti di viltà si trattava di mancata temerarietà. La nostra stessa inazione fisica, la nostra pigrizia mentale ci rendeva impossibile afferrare la verità. Ma in fondo anche questa era solo una ipotesi, per quanto suggestiva. In breve la mia situazione sentimentale era che mi ero innamorato di due donne senza essere ricambiato da nessuna. Ecco perché mi ammazzai qualche decennio fa. Non so dire se mi ammazzai per coraggio o paura. Non so dire se non fui io veramente ma i pensieri scaturiti da una depressione grave e non curata. Ma a onor del vero ero già morto molte volte prima di quella volta definitiva. In fondo chi si crede vivo è solo stato dato temporaneamente per disperso nell'aldilà. Il tentativo di fuga o la mancata presa di coscienza è solo momentanea e nell'aldilà desta molta ilarità. Ah la vita umana, la sua precarietà e fugacità!

UN ANNO DELLA MIA VITA:
L'anno prima, il mio secondo anno all'università, avevo fatto l'okkupazione a Padova per protestare contro l'aumento delle tasse universitarie e lì avevo conosciuto la bella G. di cui mi ero innamorato. Quanti discorsi e quante lettere per conquistarla! Ma lei voleva essere libera. Tutti erano innamorati di lei ma lei non ci stava. Avrà avuto le sue avventure ma non nel nostro giro. Non avevo studiato. Avevo dato due esami quell'anno ma uno era l'esame di inglese che non serviva a rimandare il militare. Avevo la testa altrove. Pensavo a lei che non ci stava e mai mi avrebbe ricambiato. A dire il vero non era l'anno prima ma molto di più perché il ministero mi aveva fatto attendere altro tempo. Così ero finito a fare il servizio civile in un collegio di preti nella bassa padana. Io avevo fatto domanda in altri enti ma il ministero della difesa mi aveva precettato lì senza avere nessuna colpa o demerito, solo per un loro errore burocratico. Me li ricordo ancora la coltre di nebbia che avvolgeva tutto e il gelo che entrava nelle ossa. Mi avevano messo a verniciare i balconi. Poi ero finito a fare il portinaio. Facevamo anche giardinaggio talvolta, nostro malgrado. Il collegio non era altro che una villa veneta immensa con un giardino altrettanto grande. Il collegio di preti aveva un Cfp, ovvero un centro di formazione professionale. Si iscrivevano ragazzi spesso bocciati agli istituti professionali statali. Io dovevo badarli nella corriera del collegio, che li riportava a casa. Quel collegio aveva anche una scuola media inferiore e quindi i ragazzi del cfp spesso davano noia e addirittura picchiavano i bambini delle medie. Se qualcuno si fosse fatto male più o meno seriamente la colpa sarebbe ricaduta su di me a livello legale. Io cercavo di farli smettere. Alcuni erano dei veri bulli. Mi dicevano allora: "Pisa sei un terrrone di merda! Fatti la barba, trovati una ragazza e fatti una famiglia!". Oppure mi dicevano: "Pisa tornatene a casa! Più in giù del Po tutti terroni!". Era la classica goccia cinese. Le prime volte le loro offese non mi tangevano minimamente, ma giorno dopo giorno avevano iniziato ad infastidirmi veramente. Non potevo fare niente. Loro erano minorenni. Avevo le mani legate. Alcuni di quei ragazzi non conoscevano minimamente il rispetto della dignità altrui! Avevo deciso di fare il servizio civile anche per studiare ed invece facevamo poco più di cinquanta ore lavorative alla settimana e pochissimi riuscivano a studiare. Io ero depresso e nel poco tempo libero mi riposavo o andavo fuori. E dire che io spesso passavo col treno per andare a Padova e vedevo quel borgo in lontananza. Vedevo quello sciame di luci e mi chiedevo chi mai sarei stato se fossi vissuto lì. Meglio non fantasticare troppo! Adesso che c'ero vivevo una vita grama! Io mi chiedevo se al mondo la maggioranza era fatta di persone come quelle dell'okkupazione universitaria dove tutti erano empatici o se era fatta di quei ragazzi del cfp, alcuni per niente empatici. Forse la verità stava a metà. Erano due realtà agli antipodi. Nonostante questo avevo fatto alcune amicizie. Alcune volte uscivo con gli altri obiettori e andavamo talvolta a vedere i concerti di T., che suonava il basso in un gruppo. Avevo anche conosciuto L., una ragazza poco più grande di me che faceva la rappresentante. Uscivamo da soli tutte le sere. Lei mi veniva a prendere con la sua macchina. Giravamo in lungo e largo la bassa padana. Lei era fidanzata con un veronese laureato e impiegato in banca. Lei lo vedeva una volta sola a settimana, mentre me mi vedeva tutte le sere. Povero il suo ragazzo! Povero me che pensavo sempre a G. e non mi riusciva scacciarla dalla testa! Anche quell'anno passò. Un anno intero della mia vita, lontano da casa. Una volta finito il servizio civile mi misi a studiare e diedi 11 esami in un anno e portai a termine gli studi. Adesso sono passati tanti anni e ho perso tutti i contatti. Non telefono più a nessuno e nessuno mi telefona più. Non ho più notizie. Forse è meglio così, anche se non tutto chiaramente era da buttare. Ma è passato troppo tempo ormai.


CATTIVI PENSIERI:
Erano i primi giorni di Ottobre e faceva ancora caldo di pomeriggio, nonostante i colori smorti e malinconici autunnali avessero pitturato le foglie, le piante e tutta la vegetazione. Non si sapeva come vestirsi. Era così facile prendere fresco a causa degli sbalzi di temperatura. Era tempo di vendemmia e di moscerini. C'erano ancora le zanzare. Si vedevano molto meno le mosche. I campi nella provincia pisana erano tutti coltrati. Merito della laboriosità toscana e anche dei progressi dell'agricoltura. I campi erano tutti a riposo con le zolle all'aria: un tempo si diceva campi a maggese. Era tempo di caccia e i cacciatori camminavano, arrancavano, si inerpicavano sulle colline e su quelle zolle. Erano sempre meno i giovani che andavano a caccia. C'era chi era animalista, chi aveva fatto l'obiettore, chi era vegano, chi non lo considerava uno sport, chi non aveva passione, chi non se lo poteva permettere economicamente, chi aveva la moglie contraria alla caccia, chi non mangiava la cacciagione. Molti cacciatori, sopratutto i pensionati, si riconoscevano perché avevano una vecchia Panda con cui gironzolavano per i sentieri sterrati dei boschi e di campagna. Sul litorale c'era anche chi andava ad abbronzarsi e a fare il bagno: come se non fosse ancora finita l'estate e si potesse goderne gli ultimi rimasugli. Io di questo prolungamento dell'estate, di questi scampoli di bella stagione, di queste giornate soleggiate non sapevo che farmene. Preferivo andare a zonzo di notte quando la luna era protagonista nel cielo, si prendeva tutta la scena nella volta celeste e non sembrava affatto un semplice satellite che gli uomini avevano già calpestato ed esplorato. Me ne andavo a giro da solo per la città una di quelle notti. Le strade, le piazze erano illuminate dai lampioni. Segni di vita giungevano sotto forma di luci dalle finestre di case e sotto forma di schiamazzi di ragazzi dal centro storico. La notte sapeva di vino, di luna e di stelle. Indossavo un giubbotto e dei jeans. Mi erano rimasti pochi spiccioli nelle tasche. Scendeva la rugiada. La notte era tiepida. Vagabondavo per la città. Volteggiavo ubriaco, quasi stordito. Tutto attorno mi sembrava lugubre, ma io non avevo niente da temere perché non avevo nulla da perdere. Ero ebbro di vita e se mi avessero dato delle botte avrei sentito ben poco. Quando si è ubriachi si sa sempre come scacciare la noia. La noia infatti assale i sobri soltanto, anche se i moralisti ottusi di fronte a simile affermazione potrebbero indignarsi. Eppure va messa in conto la noia della vita di provincia con la reputazione da salvare, le regole da rispettare, la dignità da salvare ed altre menate simili. La noia a volte si presenta come il peggiore dei mali, anche se è solo una illusione della mente che è fallace. È solo questione di ore perché dopo ti passa. Però in quelle ore ti prende un groppo alla gola, ti sembra di non riuscire a tollerare alcunché, di essere giunto al limite di sopportazione. In fondo che cosa scriveva della noia Baudelaire nel suo capolavoro? Me ne andavo a zonzo quando ho intravisto una ragazza ad una ventina di metri. Ha imboccato una traversa. Quindi ha preso una viuzza sterrata. L'ho seguita. Non so nemmeno per quale motivo. Forse per curiosità. Forse per azzardo. Forse perché avevo nella testa strani pensieri. Aveva delle belle gambe affusolate e dei capelli raccolti in un chignon sulla nuca. Fumava nervosamente una sigaretta dietro l'altra. Era una bella mora dagli occhi verdi. Aveva una minigonna ed un maglione. Al collo portava una catenina d'oro. Portava l'orologio sulla destra perché probabilmente era mancina. Nell'aria si udiva soltanto lo scalpiccio dei nostri passi, che sembravano accordarsi. Lei si era subito accorta della mia presenza. Aveva paura ed io avevo paura della sua paura. Poteva mettersi a gridare, correre all'impazzata o fare una telefonata con il cellulare. Nonostante questo ho continuato a seguirla. Potevo aggredirla. Non c'era nessuno. Avrebbe urlato? Avrebbe opposto resistenza? Avrei potuto avvinghiarla, afferrarla per i capelli, metterle la lingua in bocca, palpare le sue parti più intime, stimolare le sue zone erogene. Cosa sarebbe successo? Avrebbe reagito? In che modo? Mi avrebbe lasciato fare? Si sarebbe abbandonata al piacere? Questi desideri si affacciavano inquietanti nella mia coscienza e provavo repulsione immediata per essi. Era forse vero che era l'occasione a fare l'uomo ladro o stupratore in questo caso? Forse non avrei mai tentato una cosa del genere per il rimorso, per paura della pena o soltanto per la vergogna e il giudizio degli altri. Forse non l'avrei mai fatto per non rovinare una certa considerazione di me stesso o forse solo perché ritenuta una cosa ingiusta e che avrebbe causato un trauma alla ragazza. Forse non l'avrei mai fatto perché troppo narcisista. Ma ne ero così sicuro? Secondo un proverbio di certo in questo mondo c'è solo la morte. E poi vacci a capire qualcosa con la libido e i suoi impulsi! Vacci a capire a qualcosa con le zone morte della coscienza! Il sentiero era finito. C'era di nuovo una strada asfaltata e delle abitazioni. Dopo duecento metri è arrivata davanti ad una villa. Ha estratto le chiavi dalla borsa ed ha aperto il cancello. Io ho continuato quella strada che dopo mezzo chilometro è risultata essere senza uscita. Mi è toccato ritornare indietro. Ho guardato la sua villa quando sono ritornato addietro. Ho notato che lei mi guardava dalla finestra. La finestra era spalancata forse in segno di sfida. L'avvolgibile era tutto tirato su. L'ho guardata. Aspettavo un cenno, un gesto. Invece all'improvviso è comparso un uomo al suo fianco. Aveva le spalle larghe ed era molto alto. Era più maturo di lei. In una rissa avrei avuto la peggio con un uomo di quella stazza. Non sapevo se inorridire o tranquillizzarmi. Lei certamente era serena. Ero io in quel momento ad essere nervoso. Forse era inevitabile essere considerato da molti un maniaco sessuale o quantomeno uno che importunava le ragazze dopo quell'episodio. La ragazza avrebbe sparso la voce. Era del tutto legittimata a farlo. La città era piccola tutto sommato. Tutti conoscevano tutti, anche se spesso di vista. Era comunque in notti come queste che si impara a farsi i fatti propri e si impara anche che c'è un confine labile tra il bene ed il male, tra la vita e la morte. Una cosa l'avevo imparata infine, ovvero che che tutti possono essere preda di cattivi pensieri.




IL VIAGGIO:
La vita giorno dopo giorno diventa abitudine. È così che ogni volta si rimane ogni sera ad aspettare una sorpresa, ad invocare una novità. Più si invecchia e più è difficile trovare qualcosa o qualche persona che ci stupiscano veramente. Lo stupore, la meraviglia sono sempre più rari perché sono finite le prime volte e c'è il sospetto o il timore fondato che inizino a comparire le ultime volte. Un tempo bastava poco per accendere nell'animo una scintilla. Bastava poco per innamorarsi o per fare l'amore. Così ora ci ricordiamo di quei tempi andati, ma era veramente così allora quando li vivevamo? Non ci siamo forse scordati l'ansia e l'impaccio di tutte quelle prime volte, che non sto a enumerare né descrivere per discrezione? Ero assorto in questi pensieri sul treno. Ero solo in uno scompartimento. Avevo una sola valigia che avevo messo nel sedile accanto al mio. Il controllare era già passato a chiedermi il biglietto. Era un treno locale con pochi viaggiatori a bordo. Non c'era la polizia. Il rischio era quello di imbattermi in un rapinatore o in un ladro a cui non avrei ormai più saputo opporre resistenza. Di tanto in tanto mi guardavo attorno guardingo. Avevo comprato un giornale ma non ne potevo più delle solite cattive notizie e mi ero stancato dopo cinque minuti di leggerlo. Non avevo nessun modo per passare il tempo, ma in fondo andava bene anche così. Era da decenni che sprecavo il mio tempo. Non c'era nessun uomo col carrello a distribuire caffè, vivande e panini. Io avevo scelto quel treno per risparmiare, anche se dovevo percorrere una grande distanza. Avrei dovuto portare pazienza, ma ormai questa qualità non mi mancava. L'impazienza e la smania sono difetti giovanili ed io da molto tempo non ero più giovane. Ero in su con gli anni. Avevo una certa età ma ero ancora autosufficiente. Ringraziando Dio non ero infermo né soffrivo di demenza senile. Potevo quindi viaggiare senza imbattermi in pericoli e senza dare noia o pensiero ad altri. Alla mia età non avevo ancora perso la fantasia, che mi portava talvolta ad assentarmi dall'ordinarietà e dal quotidiano. Mi sarebbe ad esempio piaciuto avere lì una donna sconosciuta a cui raccontare tutta la mia vita: avrei avuto la libertà di inventarmi un'altra vita, non sapendo niente di me né io di lei. Oppure una sconosciuta con cui iniziare un gioco di sguardi senza andare oltre il consentito. Una sconosciuta con cui giocare maliziosamente senza parlare, conservando quindi il mistero per entrambi. Mi sarebbe piaciuto scendere ad una piccola stazione, una di quelle a cui non scende nessun viaggiatore. Mi sarebbe piaciuto fermarmi a una piccola stazione di un posto che non avevo mai conosciuto e che fino ad allora non avevo nemmeno sentito nominare. Mi sarebbe piaciuto camminare su strade che non mi avevano mai visto, entrare in un locale, imbattermi in una serie di persone sconosciute. Mi sarebbe insomma piaciuto farmi portare alla deriva delle mie sensazioni, delle mie impressioni. Mi sarebbe piaciuto immaginarmi altre vite in quel luogo inedito. Ma continuavo a stare seduto al solito posto, a guardare fuori dal finestrino un paesaggio inusuale. Guardavo le campagne che lasciavano spazio ai centri abitati in un continuo andirivieni, in un perenne alternarsi tra natura e urbanizzazione. Rimanevo immobile perché non avevo più il coraggio né la vitalità di quando ero ragazzo. Ogni cinque minuti accavallavo le mie gambe in modo differente. Ogni mezz'ora andavo a camminare un minuto nel corridoio per sgranchirmi le gambe che altrimenti si sarebbero addormentate o comunque informicolite a causa della cattiva circolazione. Tutto quello che mi rimaneva era aspettare l'arrivo. Alla stazione non avrei più trovato nessuno ad attendermi. Ero troppo vecchio e solo ormai perché qualcuno stesse lì ad aspettarmi. Tutto continuava a scorrere senza una ragione evidente, ma non cercavo più un senso alle cose e nemmeno agli eventi. Era da una vita che aspettavo una chiamata che non era arrivata. Forse per me non c'era nessuna chiamata. Ero sicuro che nella mia vita tutto sarebbe finito male. Allo stesso tempo attendevo con una certa curiosità il momento della dipartita per vedere cosa ci sarebbe stato dopo. Non speravo alcunché di buono nel dopo. Non speravo in una vita ultraterrena. Non speravo che mi avrebbe messo in un bel posto Dio o chi per lui. Sarebbe stata una malattia, un malore, un mancamento, un ictus o un infarto e tutto sarebbe finito. Forse l'unico evento, l'unica cosa che avrebbero potuto sorprendermi erano la mia morte o il suo preavviso. Avevo un presagio da tempo. Lo sentivo che ero ormai prossimo alla fine. La fine era imminente. Lo sapevo che quel preciso istante avrebbe avuto un significato solo per me. La gente e il mondo avrebbero continuato le loro cose in modo indifferente. Ormai ero arrivato. Mi alzai. Presi la valigia. Mi accinsi a scendere. Il mio viaggio era finito.



IN PENSIONE:
Era il suo ultimo giorno di lavoro ed era finito. Portò l'autobus al deposito. Scese e si mise a fumare una sigaretta. Da qualche anno aveva iniziato a fumare sigarette ultraleggere perché avevano una quantità minore di catrame e di nicotina. Era da cinquanta anni che fumava nevroticamente. Un pacchetto di cicche al giorno non gli bastava. C'erano delle sigarette che doveva assolutamente evitare ma non ci riusciva. Ogni sera prometteva a se stesso di smettere il giorno dopo. Ma la mattina dopo ricominciava. Le sigarette a cui non poteva assolutamente rinunciare erano quelle dopo il caffè e quelle in cui giungeva al capolinea e fermava il mezzo per cinque minuti. Erano più che sufficienti per farsi un fumatina. Più volte aveva discusso con la moglie per questo motivo. Lei gli diceva che doveva smettere per due motivi: per la sua salute e per il bilancio familiare. Era finito il suo ultimo giorno lavorativo. Fumava in quel momento ed era da solo. Non c'erano colleghi attorno. Si guardò un poco in giro ma non c'era nessuno. Scalciò un sasso. Si mise a riflettere che lui sarebbe stato messo a riposo per sempre come quegli autobus che dopo anni di servizio pubblico non passavano la revisione e non venivano rimessi più in circolazione.
Quei mezzi pubblici venivano lasciati lì in un angolo del deposito. Nessuno ci montava più. Nessun sedere scaldava più nessun sedile. Le signore non ci montavano più per andare in centro a fare shopping. Gli studenti non scrivevano più con i pennarelli indelebili le loro vicende sentimentali e le loro oscenità sui vetri e sui sedili. Nessun controllore avrebbe più fatto alcuna multa a qualche furbastro. Per non parlare di quelli che palpavano le donne e facevano la mano morta. Quegli autobus non più in funzione avevano visto nascere amori adolescenziali, avevano visto risse e avevano visto ladri scaltri rubare portafogli dalle tasche di passeggeri distratti. Ne avevano viste di ogni colore. L'autista si chiese perché di solito la maggioranza delle persone si ignorasse sugli autobus, anche quando erano tutti vicini e sentivano veramente il fiato sul collo del vicino perché erano davvero inscatolati come sardine. C'era come un patto di reciproca estraneità, nonostante l'estrema vicinanza. In molti casi avvertiva l'imbarazzo dei passeggeri. C'erano molti che guardavano fuori per evitare gli sguardi vicini. Altri che invece abbassavano lo sguardo. Che marasma di gente! Persone di ogni etnia, censo, religione, interesse, inclinazione! Ognuno aveva il suo destino e la sua destinazione. Ad ogni fermata sembravano disperdersi in rigagnoli, ma altri subentravano e salivano sul mezzo. Sembrava quasi che ognuno avesse paura di perdere la sua individualità in quella grande città. Forse non era solo questione di civismo e di buona educazione. Ognuno nei mesi estivi sentiva le ascelle maleodoranti dei vicini. Anche d'inverno c'era chi voleva cambiare aria ed apriva le finestre per togliere l'afrore. Altri invece non volevano prendere fresco. Alcune volte sembrava che ci fossero solo dei gruppuscoli i cui interessi configgevano. Forse era questione di umana sopportazione. Forse era questione di sopportarsi a vicenda senza andare troppo per il sottile. Però si mise a pensare che talvolta mancava il benché minimo rispetto reciproco. D'altra parte c'era lo stress lavorativo a cui si aggiungeva quello del percorso da fare per recarsi al posto di lavoro in orario. Era un doppio stress. Inoltre era risaputo che in un sovraffollamento di persone si scatena più facilmente l'aggressività e l'anonimato spesso porta a compiere azioni che non si commetterebbero se ci fossero pochi presenti. L'autista pensava a tutte queste cose e alla fine pensò che anche i molestatori in fondo erano persone in cerca d'amore e che anche i ladri rubavano perché erano poveri. Forse ognuno in quegli autobus aveva la sua ragione di essere e la sua giustificazione, anche quelli più delinquenti e recidivi. Ma gli autobus non più in funzione e gli autisti in pensione queste cose non potevano raccontarle a nessuno perché venivano considerati entrambi inutili. Non solo ma nessuno campava con queste nostalgie e queste malinconie ormai desuete. Ormai le cose vecchie le lasciavano a dormire per sempre in un angolo morto. È stato stabilito dai pragmatici che quello era il loro posto. Non c'era niente da fare né da recriminare.


IL PARCHEGGIO:
Fino a poco tempo fa ero un vigilante, ovvero una guardia di sicurezza privata in un supermercato. Eravamo diversi colleghi ad occuparci di quell'agglomerato. Avevo la mia bella uniforme di cui andavo fiero. Avere una sorta di divisa mi inorgogliva. Facevamo i turni. A volte mi toccava il giorno. Altre volte la notte. Il giorno il problema principale erano i furti delle cleptomani e i bambini che si perdevano. La notte erano i ladri professionisti, i drogati, le prostitute, le coppiette che volevano appartarsi nel parcheggio: insomma tutti quei personaggi e quelle situazioni che avrebbero potuto contribuire al degrado del posto. Devo dire che era un mestiere faticoso ma interessante perché potevo vedere una gran varietà di umanità e ciò soddisfaceva la mia curiosità antropologica. Mi ero laureato in sociologia ma non avevo trovato sbocchi lavorativi inerenti alla mia formazione culturale. Ma in fondo quella occupazione riguardava la società ed il sociale molto di più delle congetture a tavolino di un sociologo. E poi cosa mi mancava? Avevo un contratto a tempo indeterminato. Conoscevo tante persone ed ero ben visto da tutti. La comunità del paese riconosceva adeguatamente la mia funzione sociale. Io osservavo tutto e tutti. D'altronde era il mio mestiere. Certo era un lavoro rischioso. Non potevo portare armi. Non ero un pubblico ufficiale. In caso di rapine avrei dovuto cercare di bloccare i criminali senza usare pistole. L'unico vantaggio era che potevo avvalermi di un sistema di videosorveglianza. Ma a onor del vero correvo troppi rischi. Di giorno l'atmosfera era tranquilla e rassicurante. Venivano le famigliole a fare la spesa o a comprare vestiti. Il parcheggio veniva anche preso come luogo di ritrovo in cui darsi appuntamenti di lavoro. I camionisti di giorno sostavano per una o due ore: mangiavano qualcosa e si riposavo per poco. La notte invece era sempre lunga. Certe notti sembravano interminabili. C'ero solo io, gli alberelli del parcheggio, le insegne del supermercato, i fari delle macchine sulla circonvallazione. A volte l'atmosfera mi sembrava inquietante: mi sembrava l'inizio di un film dell'orrore o di un giallo. Certamente era sempre uno spettacolo vedere l'alba, vedere la notte che volgeva al termine. Guardavo in lontananza le colline ondulate indorate dal sole. Mi immaginavo la luce del giorno sui cipressi, i pini e gli ulivi che fiancheggiavano le strade di campagna; mi immaginavo l'alba sui boschi, sui filari, sui campi di girasoli. Il mio peccato imperdonabile fu una notte lasciar pernottare un camper nel parcheggio. Me lo chiesero ed io chiusi un occhio. Anzi le chiusi tutti e due. Mi sembravano una coppia così tranquilla e per bene. Avevano con loro anche un bambino di nemmeno dieci anni. Me lo chiesero anche. Io risposi che era vietato ma che per una notte avrei lasciato fare. Erano lombardi. Lì riconobbi dall'accento inconfondibile. Avevano fatto spesa al supermercato. Avevano cenato. Pensavo che avrebbero dormito e poi avrebbero ripreso il viaggio senza problemi. Quando finii il turno il camper era sempre lì. Il giorno dopo seppi della scoperta, della disgrazia: insomma chiamatela con il nome che vi pare. L'uomo aveva ucciso la moglie e il figlio: una strage famigliare. Io da allora non so darmi pace. I superiori mi rimproverarono aspramente. Prima ancora che cercassero di licenziarmi fui a a dare le dimissioni ed andarmene. Mi sentivo in colpa. Però a pensarci bene quella strage avrebbe potuto farla in qualsiasi luogo. Non potevo prevedere niente, anche se avrei dovuto attenermi alle regole. Nessuno può prevedere con esattezza dove si annida la follia. La morte inoltre può colpire in qualsiasi momento e può sempre vincere su tutto e su tutti.


IN AUTO:
Negli abitacoli delle macchine c'è la vita che freme, il sangue che scorre, le vene che pulsano e che tremano. Negli abitacoli si consumano le nostre nevrosi ed ossessioni. Non tutti siamo ossessivi ma in molti siamo comunque ossessionati da qualcuno o qualcosa. Negli abitacoli litigano, mangiano, bevono, lavorano, parlano, fanno all'amore. Io guardo dentro gli abitacoli per vedere scene di vita quotidiana. È un mio difetto o vizio. Lo so che sono indiscreto. Lo so che dovrei farmi gli affari miei. Io mi gusto lo spettacolo. Osservo abitudini e sembianze di persone di tutte le età. Cerco il significato della vita ad un incrocio, ad uno stop in un mondo tutto a quattro ruote. Ho l'impressione che ci abbiano tutti lobotomizzati. Non mi resta che scrivere raccontini, sapendo che questi sono solo interpretazione, rappresentazione o semplice trasfigurazione del mondo. Ci sono rappresentanti e camionisti che ogni giorno passano ore ed ore rinchiusi nei loro mezzi. Ci sono molti lavoratori che escono la mattina e tornano a casa la sera sempre con quella amata ed odiata automobile. Sempre a fare il solito tragitto, la solita strada. Il potere del volante inebria qualcuno. C'è chi trova perfino la morte in auto. C'è chi è disposto ad ammazzare per una precedenza. Ci sono coppie, famiglie, single inscatolati nelle macchine. Ci sono molti che parlano al cellulare. Ci sono donne che si guardano nello specchietto, che si sistemano i capelli, che si mettono il rossetto. Oggi siamo io e mio padre in macchina. Siamo fermi ad un semaforo. Alla nostra sinistra una donna sulla cinquantina. Ha un tailleur. Ha un volto inespressivo dalle iniezioni di botulino che si è fatta. Parla con il suo compagno ma è lei alla guida della Mercedes. Discutono animatamente. Gesticolano entrambi. Lui fuma nervosamente. Poi si mette a mangiucchiarsi e a rosicarsi le unghie. Lei beve una bottiglietta d'acqua. Lui si passa una mano nei capelli ormai bianchi. L'uomo è stempiato ma è palestrato. Non ha un chilo di grasso. La donna è castana chiara ed ha i capelli raccolti in una coda di cavallo. Ha i capelli molto lisci e curati. Lei punta il dito contro lui. Lui non cerca di tranquillizzarla. Entrambi urlano, ma non so cosa si dicono. Nessuno dei due sembra ponderato. Lei inizia a piangere. Le lacrime le sfanno il trucco. Lui le sfiora le labbra con un dito. Con la schiena curva, si protende verso di lei e cerca di abbracciarla. Lei si ritrae. A volte la solitudine è incolmabile, anche quando si è in due. Guardo i miei occhiali da sole sul cruscotto. Guardo l'orologio. Mi domando una cosa stupida. Chissà quanto spende una donna del genere per tenersi così curata ed in forma? Sarà una manager, una imprenditrice? Sono entrambi persone in carriera. L'uomo è in giacca e cravatta. Guardo il cielo grigio come se fosse di gesso. È un tempo balordo. Sono le cinque e mezzo del pomeriggio. Siamo ancora in pieno giorno. Mi piace molto di più quando c'è il sole che tramonta ed è livido. Sono un osservatore di tramonti. Da giovane invece mi piacevano di più le albe, che rappresentavano per me una rinascita. Io continuo ad osservare la scena. Loro non si accorgono di niente perché sono talmente presi dalla loro discussione da non curarsi di niente altro attorno. Forse discutono dei figli, di lavoro. Forse sono solamente stanchi della solita routine. Ha lo sguardo smorto. Sembra un poco impacciato. Accende la radio ad alto volume. Guardo il petto e le cosce sode di lei. Non c'è dubbio: è una donna piacente. È finita la loro conversazione. Non so se abbia vinto la passione o l'ira. Non so quanta complicità o intesa ci sia tra di loro. In fondo è psicologia osservare anche le movenze di lei e la ritualità di lui, gli atteggiamenti e i comportamenti di entrambi. Al volante non si stabiliscono delle relazioni ma si intravedono squarci di vite altrui. Forse sono solo un voyeur di fatti minimi, apparentemente insignificanti; sono solo un decifratore di segni convenzionali. Forse sono solo uno studioso di quel gioco combinatorio che è la vita. Nonostante questi pensieri continuo a guardare. Ad un certo punto lui si accorge di me. Mi invia un cipiglio. Mi fa il gesto dell'ombrello. Distolgo lo sguardo da loro. Apre il finestrino. Inveisce contro di me. Io non rispondo. Per fortuna è scattato il verde. Loro hanno ancora il rosso. Andiamo via. Mio padre alla guida non si è accorto di niente. Ah quale livello di sopportazione! Ah quanta rabbia consumata al volante! Ah quanta vita e quanto amore disperso nei covi delle nostre macchine!


CON IL TEMPO:
Lei dormiva accanto, abbracciandolo. Il suo respiro era così leggero che quasi non la sentiva. C'era solo la luce della luna che entrava dalle inferriate. Nessun altra luce. Solo il rumore di fondo delle macchine che passavano sulla circonvallazione. Tutti i loro amici e le loro amiche erano andati a dormire. Tutto il mondo sembrava assopito. A lui sembrava trascendere il tempo quando l'abbracciava. Nessuno di loro si sentiva mai solo in quel tempo. Nessuno può considerarsi solo quando si ha una caterva di amicizie. Lei era bella e non usava mai truccarsi. Era bella al naturale. Così tonica e con i suoi capelli a caschetto castani. Indossava jeans e un piumino. Era così semplice! Entrambi erano coperti da un semplice plaid. Dormivano vestiti da diverse notti. Niente altro. Si sentiva alle volte giovane per sempre ed altre volte immortale quando le dormiva accanto. A tratti carezzava la sua nuca e la sua chioma. A tratti le teneva la mano. Lei diceva che erano solo buoni amici. Lui aveva paura di dichiararsi e di perderla per sempre perché lei voleva innanzitutto la sua libertà. Lei prima aveva pianto raccontandole del suo ex che l'aveva trattata male e lasciata senza preavviso. Adesso lei voleva essere libera. Aveva venti anni, era una universitaria fuori sede e voleva sentirsi libera. Non voleva impegni. Non voleva legami né catene. Non voleva vivere delusioni. Non voleva soffrire. Amava l'ebbrezza del vino in quelle notti. Amava cantare e stonare canzoni in quelle notti. Adorava strimpellare la chitarra. Lui le faceva da confessore e amava ascoltare alcuni suoi piccoli segreti. Si erano raccontati le loro vite. A volte pensava di leggerle nel pensiero, altre volte sembrava che lei gli leggesse nel pensiero. Che cosa era quello struggimento e quello stringersi forte? E quelle conversazioni fitte e quel filosofeggiare su tutti gli aspetti della vita? Si frequentavano da giorni. Facevano parte da due settimane della stessa comitiva. Lui si sentiva a proprio agio. Sembrava che si conoscessero da una vita. Apparentemente tutto sembrava procedere senza contrasti. Ognuno naturalmente aveva i suoi difetti e le sue contraddizioni. Tutto sembrava combaciare, anche se sapevano entrambi che l'idillio non esisteva. Tutti sembravano essere in armonia con il mondo, nonostante le gravi ingiustizie e sperequazioni del mondo. Lei sembrava essere particolarmente spontanea. Lui faticava a prendere sonno con lei accanto. Scorrevano nella sua mente le immagini della giornata. Ripensava a tutte le parole, le espressioni, i movimenti di lei. L'aveva messo in conto che un giorno la felicità sarebbe sgusciata via e sarebbe dopo s

Informazioni generali

  • Categoria: Poesia

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  • Archiviata il: 29/05/2019

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