Semplicemente Filly

Dover ritornare nel mondo dell’infanzia, fatto di scale e di grandi stanze vuote, di porte chiuse e di finestre barrate, di rigore e di severità, non era quello che avevo sognato per il mio futuro, ma la realizzazione dei sogni, si sa, non dipende dalla nostra capacità volitiva, essi vengono plasmati dal senso eterno del mondo e riassorbiti dalla stessa matrice che li ha prodotti.
La casa dove abitavo con i miei genitori e dove ho trascorso il lungo e travagliato periodo adolescenziale, aveva odore di rancido.
Le pareti grigie, uguali in tutte le stanze, e i mattoni ocra e avorio i cui disegni a dir dei miei, unendosi, formavano scatole, aveva una posizione geografica invidiabile.
Posta su un viale di pini dalla chioma che parea d’antica nobiltà e dalla pregnante resina che amavo respirare nelle giornate di pioggia, puntava il suo sguardo sul golfo di Palermo e sul prospiciente Monte Pellegrino, e con la bassa marea sull’Isola di Ustica.
Il verde lussureggiante della Conca d’oro, nonché il profumo di zagara di limoni, d’arance e di mandarini riempivano il mio animo di meraviglia sempre nuova, e quando faceva buio, improvvisamente, il magico gioco di colori, di luci, di profumi e di straordinari arcobaleni sul mare, divenivano la leva per sollevare il mondo, anche se il mio carattere rivoluzionario e anticonformista, e le insensate discussioni con mio padre, mi riconducevano prima o poi nel baratro della tristezza.
Unico conforto, a parte il diretto contatto con la natura, erano i colori, grandi latte di colori con cui imbrattavo le pareti della mia stanza e una sorta di libreria che aveva creato, secondo le mie aspettative, un amico falegname.
Difendere i miei ideali e la mia individualità era una questione di principio e nonostante il conflitto con la mediocrità e le convenzioni fossero sempre difficili da affrontare, la battaglia con mio padre diventava sempre più aspra, più pungente, più carica di rabbia.
Odiavo mio padre con tutta me stessa, così come odiavo me stessa per la mia personalità, per essere ciò che volevo essere, o per essere ciò che ero.
Poi capita che una mattina ci si svegli e tutto è diverso. I profumi, i sapori non sono più gli stessi, nemmeno la rabbia è più la stessa, e non comprendi se tutto sia cambiato in peggio o in meglio. Solo il tempo potrà indicarti la strada per comprendere o dimenticare.
La malattia lo aveva reso fragile, indifeso. Due mondi diametralmente opposti ora si cercavano, si incontravano, si scambiavano carezze.
Quando dopo anni mia madre ed io ritornammo nella casa d’infanzia, la verità del passato riapparve cruda e nuda così come l’avevo vissuta nel periodo adolescenziale, e se cercavo di superarla o di rinnegarla mi tornava ogni qualvolta in faccia come un boomerang, ripercuotendosi sulla mia salute psicofisica.
Intanto tinteggiavamo con mia madre le pareti di giallo, arancione, salmone, e ancora una volta i colori destavano in me sensazioni nuove, voglia di ricominciare, di lottare, ancora nonostante tutto.
Del mondo dell’infanzia non ho molti ricordi, ma ce n’è uno che porto addosso come un profumo, e che in particolari momenti rievoca con tutta la sua fragranza l’essenza della mia fanciullezza.
Avevo circa sette anni, non avevo molti amici, e spesso giocavo da sola con Luisa, una bambola altissima regalatami da una zia a me cara. Mi sedevo a terra, sotto la finestra della cucina, e appena in lontananza percepivo il fischio del treno, mi drizzavo in piedi, scostavo la tendina che riportava la storia di cappuccetto rosso, ben cucita e orlata da mia madre, e aspettavo con trepidante attesa quel treno, che forse sostava per pochi minuti alla stazione di Ficarazzelli.
Era il momento della giornata più emozionante. Era il mio treno sul mare, sul meraviglioso golfo di Palermo, che mi portava ovunque volessi andare. Ma i sogni, si sa…

Il muro bianco a distanza ravvicinata dalle mie due uniche finestre barrate, una al piano superiore e l’altra, nella stanza da letto, ha rappresentato per anni una prigione e destato in me molta rabbia.
Più tardi compresi che esistono molti limiti. Il mio era l’incapacità di vedere «oltre».
La mia casa d’infanzia è il mio museo, è il luogo in cui i colori, miscelandosi fra loro, parlano di me…
Filly Di Chiara

OPERA DI RIFERIMENTO:

Buona Fortuna