Matteo Ferretti: l’astrazione che scuote la percezione e attraversa l’anima
Cari lettori,
dopo una lunga e appassionata ricerca, finalmente ho avuto il privilegio di incontrare personalmente un artista la cui fama ha da tempo superato i confini nazionali.
Parliamo di un nome ormai consacrato nel panorama dell’arte contemporanea internazionale, protagonista indiscusso di mostre prestigiose e tra i più quotati della sua generazione. Quello che segue non è solo un articolo, ma il racconto di un’esperienza intensa, viscerale, il tentativo – forse impossibile – di restituire con le parole l’energia percettiva e spirituale che sprigiona dalla sua opera. Nell’orizzonte della pittura astratta contemporanea, pochi artisti sanno coniugare la potenza dell’intuizione con la profondità di un linguaggio interiore come Matteo Ferretti. Nato a Parma nel 1976 e diplomato presso il celebre Istituto d’Arte “Paolo Toschi”, Ferretti ha costruito negli anni un percorso singolare, indipendente, carico di senso e di energia emotiva. La sua arte non si lascia osservare: si attraversa.
Le sue opere, dense di materia e tensione luminosa, non si limitano a esistere sulla tela, ma chiedono all’osservatore un coinvolgimento profondo, quasi corporeo, un abbandono emotivo necessario per varcare la soglia del visibile e accedere a quel territorio impalpabile dove l’estetica si fa esperienza percettiva. Il suo è un linguaggio che vive di vibrazioni, un codice astratto che si rivela a chi sa ascoltare il silenzio visivo del colore e lasciarsi guidare da esso.
La traiettoria espositiva di Ferretti testimonia la portata internazionale della sua ricerca: le sue opere hanno viaggiato attraverso capitali dell’arte e della cultura come Parigi, Berlino, Miami, Mosca, Dubai, San Paolo, e Pechino, inserendosi in contesti di altissimo profilo e dialogando con scenari culturali tra loro diversissimi. In Francia, ha collaborato per tre anni con la maison Louis Vuitton all’interno del progetto “Moai travel of light”, mentre a Dubai ha proposto per Expo 2020 una l’installazione “Plasma Brain”, opera simbolica e potente che riflette la sua capacità di tradurre concetti universali in materia visiva.
Il pensiero di Ferretti prende forma anche in contesti complessi e marginali: basti pensare al progetto sociale preparato per SESC Pompeia a San Paolo del Brasile dove parte di esso avrebbe dovuto agevolare la favela Erundina dove l’arte si è trasformata in strumento di rinascita e consapevolezza collettiva. Partecipazioni di grande rilievo, come quelle alla Biennale di Venezia (51ª e 53ª edizione), alla Biennale di Pechino o al simposio “Nuova narrazione per l’Europa” promosso dalla Commissione Europea, consolidano la sua figura all’interno di un panorama artistico che ne riconosce la coerenza e la forza progettuale. Anche in Italia Ferretti si è distinto con una costante presenza in mostre personali e collettive che hanno valorizzato la sua inesausta tensione verso l’interiorità dell’immagine.
Le esposizioni presso la Fondazione Stelline di Milano, in particolare “Tema A.3, “Il vano sforzo”, sono state momenti cruciali nella sua carriera, confermando la rilevanza della sua opera agli occhi della critica e del mercato. Non meno significative le presenze alla Biennale di Sabbioneta, alla mostra “Speed in Art” a Venezia e in numerose gallerie tra Milano, Bergamo, Firenze e la sua Parma. Ogni sua mostra è pensata come un viaggio interiore, un attraversamento del mondo emotivo che si manifesta attraverso composizioni cromatiche in continua trasformazione, che richiamano paesaggi immaginari, vibrazioni cosmiche, correnti di energia primordiale. Le opere di Ferretti, come “Galassia contemporanea” o “Un nuovo inizio”, non si impongono all’occhio, ma si insinuano nello spazio intimo dell’osservatore, suggerendo visioni e stati d’animo che non possono essere verbalizzati. La sua non è pittura da parete, ma portale aperto verso uno stato alterato di presenza. Ogni tratto, ogni variazione tonale, ogni grumo di materia ha una risonanza psichica, come se il colore fosse il veicolo di un linguaggio antico, in grado di risvegliare memorie assopite e verità taciute. Ferretti ha costruito un sistema estetico in cui il supporto diventa organismo sensibile, un tessuto vibrante che cattura e riflette l’energia del mondo invisibile. In un’epoca in cui l’immagine tende all’iperproduzione e alla superficie, la sua ricerca si distingue per rarefazione e profondità.
Non c’è nulla di urlato nelle sue opere, nulla di facilmente accessibile: è un’arte che non vuole sedurre, ma trasformare. Non sorprende che il suo pubblico sia selezionato, composto da chi non cerca risposte immediate, ma domande che restino a pulsare sottopelle. I suoi dispositivi percettivi, come lui stesso li definisce, non offrono soluzioni, ma aprono varchi: sono strumenti per percepire l’invisibile, per riaccendere la coscienza in un mondo assuefatto alla distrazione.
L’arte di Ferretti si rivolge a chi ha il coraggio di fermarsi, di lasciarsi attraversare, di accettare che la bellezza possa anche ferire, se necessario. E proprio qui risiede la sua unicità: nel saper combinare una tensione mistica con un’estetica rigorosa, una spiritualità laica con un linguaggio visivo potentemente contemporaneo. Matteo Ferretti non chiede di essere compreso, ma di essere sentito. Le sue opere non si esauriscono nell’atto della visione, ma agiscono nel tempo, sedimentano, riaffiorano nei sogni, nei pensieri, nei vuoti della quotidianità. Sono presenze che abitano l’anima, come echi di qualcosa che si è sempre saputo ma mai espresso.
Per questo, la sua arte è per pochi: non per scelta elitaria, ma perché richiede dedizione, ascolto, disponibilità a lasciarsi trasformare. In un mondo che consuma immagini alla velocità della luce, Ferretti ci invita a rallentare, a guardare davvero, a sentire senza paura. E chi accetta questo invito, scopre un’altra dimensione dell’esistere. Una dimensione dove l’arte non decora, ma risveglia. Dove il quadro non si guarda, ma si vive.
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