RACCONTO: "UNA PASSEGGIATA DOMENICALE A CEFALÙ"

RACCONTO:

 


               “UNA PASSEGGIATA DOMENICALE A CEFALÙ”

 

 

(descrizione a cura dell'intelligenza artificiale)


(testo di Roberto Zaoner) 

 

 

 

Il tema principale del racconto "Una passeggiata domenicale a Cefalù", di Roberto Zaoner, è l'esplorazione delle emozioni umane e della bellezza ritrovata nei momenti quotidiani. Il racconto riflette la complessità delle sensazioni umane e offre al lettore una prospettiva ricca e profonda. Lo stile di scrittura di Zaoner è caratterizzato da descrizioni intense, vivide e luminose, emozioni sincere e attenzione alle relazioni e alle esperienze umane, che riflettono la bellezza che si trova nei momenti quotidiani.

Il senso del racconto è incentrato sulla capacità dell'autore di trasmettere emozioni profonde e riflessioni significative attraverso la sua scrittura. Il racconto offre al lettore una prospettiva ricca e profonda attraverso la narrazione di esperienze vissute durante questa passeggiata. La storia  esplora temi universali come l'amore, la bellezza, la speranza e la resilienza, offrendo una visione articolata e coinvolgente della vita e delle relazioni umane.

 

 

TESTO:

 

 

Le onde sciabordavano lungo la perenne scogliera in quella lingua di terra lungo le casette e i luoghi di ristoro. Tra la spiaggia, a ridosso del paese e il porticciolo, oltre la rocca, animato da pescatori, coi visi luminosi per il sole caldo e splendente e che non celavano i loro sorrisi radiosi, riuscivamo a scorgere dai loro occhi la gioia per la giornata rilucente. E bambini che giocavano, lungo il litorale, con gli occhi pieni di felicità e di soddisfazione; fulgenti sorrisi incontro alla vita. La giornata faceva pensare a una sicura pescagione, che si presagiva molto abbondante, e che il ricavato della vendita del pesce gli avrebbe fruttato quanto bastava a loro per sfamare le famiglie. Quella trascorsa non era stata generosa. L’avventura in mare aperto era stata interdetta, perché si erano addensate nubi che non promettevano nulla di buono, ci dicevano. E io immaginavo quei nembi oscuri e minacciosi, carichi e traboccanti di pioggia, in procinto di scatenare una burrasca e correnti marine che creavano onde lunghe e alte che avrebbero atterrito anche i più esperti pescatori che sapevano districarsi coi loro pescherecci nel mare aperto, dovendo guadagnarsi il pescato della giornata. Ma affrontarlo avrebbero arrischiato le loro stesse vite, lasciando le loro famiglie nella disperazione. L’unico impegno cui dedicare i loro sforzi di lavoratori che non si arrendono mai, rimaneva quello di curare le reti e di stivarle nelle rispettive barche. Gravoso e pesante quel mestiere, come tanti altri lavori di povera gente che fa fatica a vivere di quello che la natura offre. Duro è il lavoro, sotto la pioggia battente e il sole cocente. Dura è la vita. E di lì a pochi metri, turisti gaudenti, mostravano volti insoddisfatti e sguardi quasi torvi, perché avevano tutto e non sapevano più quali altri agi e piaceri rincorrere. Prendevano la via del mare con i loro natanti, dopo averli tolti dagli ormeggi con gomene o catene, assicurate alle bitte, poste sulle banchine del porticciolo, sicuri di un’attraversata tranquilla e piacevole, non prima di atteggiarsi a uomini vissuti, con lo sguardo superbo e altezzoso di chi ostenta la propria ricchezza e pieni di boria, impregnati di classismo, contenendosi con sussiego per mostrare a chi gli stava intorno la loro presunta superiorità, con il loro vestiario sempre rigorosamente trendy e con la loro pelle abbronzata che emanava profumi sgradevoli, se pur molto costosi, come ne avessero anticipato un bagno in quegli odorosi profumi e oli essenziali, che diventavano sgradevoli perché usati in abbondanza. Questo dimostrava pure la loro volgarità. E imbarcazioni d’alto mare e robusti aliscafi, di proprietà di società, presi d’assalto da gente più normale e con portafogli più leggeri. Insomma: la massa della gente, quasi il proletariato, il vulgo. Queste imbarcazioni andavano contro le correnti marine e onde instabili, nella giornata che si era rivelata ventosa, per raggiungere le più vicine isole Eolie. tornando, io e la mia sposa, nel centro del paese, ripercorremmo la stradina principale e c’incamminammo verso una discesa, raggiungendo delle vasche naturali d’acqua d’una vicina sorgiva. Refrigerio ove trovammo io e la mia amata in questo luogo tanto amato e solitario, ma un tempo molto frequentato dalle massaie, giovani e anziane donne, a lavare il bucato e a sciorinare all’aria aperta per l’asciugatura stoviglie e panni che s’impregnavano, poi, dell’effluvio delle vicine case e osterie che olezzavano l’aria di salsa mediterranea, assolata dal caldo e confortante sole, e cotta su pentole di rame che ricordavano quelle di un’epoca lontana.

Avrei voluto vedere il candido colore azzurro del mare lungo la stradina, ma mi era vietata la visione dalle casette a schiera. Scorgevo ad un tratto un anfratto che ci condusse a mare. M’immersi così nella visione magica come fosse un vecchio dipinto marino, e non capivo se stavo sognando paradisi in Terra. Ci guardammo sorridenti, sicuri di godere quello che si presentava davanti ai nostri occhi. Barche dai colori vivaci e variopinti. Tutte avevano un nome. Sassolini che ci offriva la Natura e che ci raccontavano la storia di quest’angolo di paradiso. Rimanevamo immobili e nell’aria alianti gabbiani volteggiavano e garrivano felici. Ritornammo sulla stradina e ci sedemmo a un tavolo per un gelato. La canicola non faceva sentire i suoi effetti caldi e soffocanti in quel giorno di luglio. La giornata era accarezzata da un dolce refolo che attenuava il calore accumulato dai nostri corpi. I nostri occhi spaziavano per ammirare il paesaggio marino. Il mare a volte calmo, a volte increspato per la giornata un po’ ventosa, tipica di questa estate, in quest’anno ferito da un virus sconosciuto; un crudele nemico che già tante vittime aveva lasciato dietro di sé, sul suo impietoso cammino nel mondo. Il sole andava calando in direzione del mare. “Sarà un bellissimo tramonto e riflessi del sole sul mare di luglio che luccicano quasi a far festa, e nel vespro di questa bella giornata estiva l’orizzonte del mare, dove il sole stanco va a dormire, diverrà purpureo”, pensavo.

Affacciati a una terrazza, ammiravamo un paesaggio come pochi se ne vedono e quegli scogli laggiù venivano percorsi e talvolta blanditi dalle onde del mare, che forze d’urto ne creavano col tempo sculture informi, che non hanno mai respiro, come il genio del Rinascimento: Michelangelo, mente dedala, che lasciava, a volte, alcune sue opere incompiute e senza una forma propria, perché impegnato in lavori più difficoltosi e che richiedevano più tempo per la loro realizzazione. Il monte che sovrastava il paese si ergeva superbo e sontuoso. Era la Rocca di Cefalù, che qui chiamano: “U castieddu”, perché nella cima vi sono i resti di un castello medioevale. È una rupe molto alta, che dona fascino a tutto l’ambiente cefaludese. La leggenda mitologica vuole che Dafni, figlio della Ninfa Dafnide e del Dio Ermes, venne sedotto, ubriaco, dopo che aveva giurato di rimanere fedele ad una Ninfa. Per punizione venne accecato. Disperato per la sua cecità, Dafni si gettò dalla rupe e trovò la morte. L’epilogo è controverso, poiché un’altra versione narra che Zeus, per salvarlo, lo trasformò in rocca. La solennità della rocca è come quella della Basilica Cattedrale della Trasfigurazione, da tutti conosciuta col nome di Duomo, ove ci avviammo. Il monte e il Duomo stanno vicini e sembrano guardarsi come due innamorati felici. Ma, un po’ irrispettoso pare sia il Duomo perché volge le spalle alla piccola montagna. A noi la Basilica è tanto cara e brividi di stupore mi percuotono e vibrano nelle mie vene ogni qualvolta facciamo ritorno qui. Purtroppo, a noi era preclusa la vista di quella bella croce in metallo sulla rupe, che s’illuminava nelle ore serali. Il tempo sembrava scorrere veloce e avanzava l’imbrunire. Facevamo in tempo per andar via prima che il cielo diventasse porporino in quel vespro di giornata. Eravamo già nell’ora che precede il crepuscolo. Di fronte alla Chiesa vi è una piazza che era gremita da avventori nei bar all’aperto, che ornavano l’area di fronte al Duomo, coi loro grandi ombrelloni e con piantane che li sorreggevano, e i loro tavoli occupati dai turisti per un pasto frugale e bere della buona birra. Alcuni sorseggiavano semplicemente un caffè, un sorbetto al limone o un limoncello. I più pretenziosi consumavano un aperitivo: quello della serata prima della cena. Il Duomo giace ormai da quasi otto secoli, con le sue due possenti torri normanne che gli fanno da cornice e che assume carattere di fortezza. La Basilica della Trasfigurazione si riteneva fosse sorta per volere di Ruggero II d’Altavilla, re di Puglia, Calabria e Sicilia, che scampato miracolosamente a una violenta tempesta e scaraventato nella spiaggia del paese, fece un voto, dando l’impulso per la costruzione della chiesa. Ma, in realtà fu costruita per ragioni politico-militari, avendo la costruzione assunto carattere di fortezza. Questa descrizione facevo alla mia donna quando entrammo nel Duomo, di stile romanico con impronta bizantina. L’atmosfera che si respirava al suo interno ci pareva irreale. Luogo di raccoglimento, ove dominava un silenzio al di fuori dello spazio reale, col tempo inesistente e tanta frescura che ci accompagnava lungo il nostro coinvolgimento d’estasi, immersi in una viva contemplazione. Il tempo pareva essersi fermato e facevamo fatica a pensare che esso muta tutto quanto. Dio era lì dentro. Ci sentivamo cullati dal suo grande e infinito amore. I fedeli, inginocchiati sui banchi e protesi in preghiera, parevano invitarci a innalzare preci al Signore e a pregare con loro, ed era un coinvolgimento totale di fede. Il Cristo Pantocratore, col suo sguardo benedicente i fedeli, la cui raffigurazione musiva era collocata sopra l’altare centrale, pareva osservarci ovunque eravamo all’interno di quella che una volta veniva non impropriamente chiamata Cattedrale, e pareva seguirci col suo sguardo d’indulgenza, di redenzione dalle pene temporali delle anime peccatrici. Ebbi un fremito e cominciai a osservarlo. La sua mano sinistra reggeva un Vangelo aperto. L’indice e il medio della mano destra, invece, erano uniti: indicavano la doppia natura di Cristo, umana e divina. Le altre tre dita, anch’esse congiunte, indicavano la Santissima Trinità. Ammiravo il presbiterio, ove era posto l’altare, e i miei sguardi volgevano verso l’alto, indugiando sull’abside, la cupola sopra l’altare del Cristo Redentore. E poi le due navate laterali e quella centrale. Mi colpì molto il pulpito aggettante, finemente lavorato, e due organi che richiamavano anch’essi l’attenzione dei visitatori. C’incamminammo verso l’uscita della chiesa e dopo un rispettoso segno della croce rivolto all’altare maggiore del Cristo Pantocratore, guadagnammo l’uscita. Col portone alle nostre spalle, ci ritrovammo all’esterno del Duomo. Avvertimmo un’aria leggermente frizzante, avendo perso il sole la sua potenza col suo calore prettamente estivo.

Prendemmo così la strada di ritorno a casa. Ripercorremmo a ritroso la stradina che ci aveva condotto alla Basilica e ci accorgemmo delle luci dentro i bar e i negozi, abbelliti di varia merce; dall’abbigliamento ai ninnoli e soprammobili, dagli oggetti di souvenir alle librerie, dai negozi di vendita di alcolici a quelli di oggetti di antiquariato e negozi di ceramiche, con disegni e colori strabilianti. Poi, i ristoranti con i tavoli quasi incastonati nei caratteristici stretti vicoli e piccoli balconi che stavano a guardare. Raggiungemmo poi la via ove era posteggiata la nostra auto e ci avviammo verso la nostra dimora. Lungo la strada, la mia donna scorgeva il bellissimo tramonto sul mare, col cielo che aveva già assunto il tipico colore purpureo.

Avvicinai l’auto al bordo della strada, uscii dall’abitacolo, mi avvicinai ad un muretto e da lì feci una foto al bellissimo crepuscolo. Come spesso accade, una sottile striscia orizzontale di lontane e sottili nuvolette appena sopra l’orizzonte del mare tendeva a nascondere la bellezza del sole in quel vespero di giornata. Esso andava nascondendosi lentamente dietro l’orizzonte blu cobalto del mare, perdendo lentamente la sua forma tondeggiante. E ancor con la luce in cielo si poteva notare, con un attento sguardo, il pianeta Venere, in direzione del sole calante, che fa apparire la sua sfera e brilla debolmente nella volta celeste. E di lì a qualche ora più tardi, sarebbe stata l’oscurità della notte, e deboli luccichii di stelle molto in alto su di noi. Avrei ricordato quell’incantevole passeggiata estiva, resa dolce da una carezzevole aura che spirava quel giorno dal mare e aveva stemperato il calore ai nostri corpi, facendoci godere appieno quella giornata di luglio. Il ricordo di quel giorno custodito in una foto: un’immagine per la memoria, un’immagine della natura, un’immagine di vita, un’immagine d’amore eterno.

 

 


 diritti riservati

 

  

Roberto Zaoner

 

Informazioni generali

  • Categoria: Poesia

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  • Codice GA: GA212954
  • Archiviata il: 15/04/2024

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