Arcadia

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A proposito del nome, del motto, del simbolo

Arcadia

Arcadia (EL) è una moderna provincia greca, vista però nel corso della storia della letteratura come un mondo idilliaco. Si presenta infatti come una regione montuosa, inabitata per via della sua topografia: prevalentemente occupata da pastori, ha assunto nella poesia e nella mitologia i connotati di sogno idilliaco, in cui non era necessario lavorare la terra per sostenersi, perché la natura provvedeva già a donare all'uomo il necessario per vivere. Ha una diversa connotazione dal concetto di utopia.
Secondo la mitologia greca, l'Arcadia del Peloponneso era un possedimento di Pan, la deserta e vergine casa del dio della foresta e la sua corte di driadi, ninfe e spiriti della natura. Viene spesso identificata come una sorta di paradiso terrestre, abitato però solamente da entità sovrannaturali , non un luogo in cui le anime si rifugiassero dopo la morte.
L'Arcadia è rimasta un soggetto artistico sin dall'antichità, sia nelle arti visuali, sia in letteratura. Le immagini di bellissime ninfe che giocano e corrono in una rigogliosa foresta sono state frequenti fonti di ispirazione per pittori e scultori.
La stessa mitologia greca è fonte di ispirazione per il poeta romano Virgilio nello scrivere le sue Bucoliche, una serie di poemi la cui ambientazione è molto simile a quella dell'Arcadia[1] Il risultato poi dell'influenza virgiliana nella letteratura medioevale, come ad esempio lo è nella Divina Commedia, l'Arcadia è diventato il simbolo della semplicità dello stile di vita dei pastori, del loro attaccamento alla Natura.

Il Rinascimento: l'Arcadia in Europa

Thomas Eakins, "Arcadia" Gli scrittori rinascimentali europei infatti rivisitarono spesso questo tema, che divenne ben presto simbolo di un luogo idilliaco. Importanti autori che si rifecero a questa tradizione furono per esempio Garcilaso de la Vega, in Spagna o Torquato Tasso, in Italia, nella sua opera la Gerusalemme liberata. Diversamente da come può sembrare in superficie, il termine Utopia, coniato da Tommaso Moro, non ha la stessa connotazione del termine Arcadia: non riprende una società ed una Natura idealizzata dall'uomo secondo le sue esigenze; l'Arcadia rappresenta il risultato spontaneo della vita vissuta naturalmente, lontano dalla corruzione della civiltà.

Nel 1502, Jacopo Sannazaro pubblico il suo poema Arcadia, che fissò la nuova concezione dell'Arcadia come un mondo perduto, di felicità perfetta e duratura, raccontato come un ricordo lontano e felice. Anche l'opera Sogno di una Notte di Mezz'Estate di William Shakespeare è ambientata entro i limiti di un regno con le stesse caratteristiche dell'Arcadia, governato da un re fatato e una regina. Nell'ultimo decennio del XVI secolo, Sir Philip Sidney fa circolare delle copie di un suo poema eroico The Countess of Pembroke's Arcadia, stabilendo l'Arcadia come un modello del Rinascimento. Il tema dell'Arcadia fu in gran voga anche nel XVIII secolo: celebre è il villaggio costruito a Versailles, dove la regina Maria Antonietta, smessi i panni di sovrana, aveva l'occasione di essere una felice contadinella in un mondo fatato ed idilliaco.

L'Arcadia nel panorama della letteratura italiana

L'Accademia dell'Arcadia rappresenta, oltre ad un circolo letterario, un vero è proprio movimento letterario, fondato a Roma il 5 ottobre 1690. I suoi fondatori sono 14 letterati e intellettuali, tutti appartenenti al circolo della regina Cristina di Svezia, che risedette nello stato Pontificio dopo aver abdicato al trono, dal 1655 alla morte (1689). Il nome, oltre a ricollegarsi idealmente alla classicità e al romanzo di Sannazzaro, rievoca il carattere evasivo dell'attività poetica svolta all'interno dell'Arcadia. Era ancora viva, infatti, all'interno dell'accademia l'abitudine di matrice seicentesca, al "travestimento": Ogni accademico si sceglieva un nome tra quelli dei pastori protagonisti delle opere di carattere bucolico greco-latine (ad esempio Opico Erimanteo era il soprannome di Gian Vincenzo Gravina e Artino Carosio quello di Pietro Metastasio), la sala riunione venne rinominata Bosco Parrasio, l'archivio "Serbatoio", l'insegna "sampogna di Pan" (il dio Pan era il protettore dei pastori e delle greggi) e a capo dell'organismo vi era un custode che svolgeva attività analoghe a quelle dell'odierno presidente di un circolo culturale. Tra i custodi che si sono succeduti durante la vita dell'Arcadia è necessario ricordare Gian Vincenzo Gravina (Cosenza1664, Roma 1718). In tale accademia entrarono a far parte filosofi, storici, scienziati appartenenti alla scuola galileiana. Tappa finale dell'Arcadia, era teorizzare una via alternativa al "cattivo gusto" barocco. La sua volontà era di impedire alla poesia di divenire mero artificio retorico.
Per questo suo fine ultimo, l'accademia è stata spesso definita come una coscienza di decadenza, ovvero come la consapevolezza, oggi ritenuta oggettivamente errata, che la letteratura avesse raggiunto il suo apice nel periodo classico greco-latino e nel Petrarca (Arezzo 1304- Arquà 1374). Si svilupparono in tale prospettiva due filoni interni all'Arcadia: quello "petrarcheggiante", i cui massimi esponenti furono Giambattista Felice Zappi (Imola 1667 - Roma 1719) e Paolo Rolli (Roma 1687- Todi 1765) e quello "classicheggiante", il cui massimo esponente fu Pietro Metastasio, pseudonimo grecizzato di Pietro Trapassi (Roma 1698- Napoli 1782)

(fonte: Wikipedia)

Et in Arcadia ego

è un'iscrizione riportata in alcuni importanti dipinti del '600, fra cui l'omonimo "Et in Arcadia ego" del Guercino, realizzato fra il 1618 ed il 1622. Essa appare anche come iscrizione tombale sul dipinto "I pastori di Arcadia" (circa 1640), del pittore francese Nicolas Poussin. La frase significa letteralmente, "Anche io nell'Arcadia". "Et in Arcadia ego" è anche il presunto motto della famiglia Plantard e del Priorato di Sion, secondo una rivendicazione apparsa per la prima volta nel 1964. La struttura ellittica della frase suggerirebbe una parola mancante. Anche se non richiesta dalla grammatica latina, sum è una delle parole suggerite per completare la frase, che diventa: "Anch'io sono nell'Arcadia". Indipendentemente dall'accuratezza di questa ricostruzione, essa non è considerata parte della storia ufficiale del motto, che, nella lettura tradizionale, è considerato un simbolo della caducità della vita, anche nei suoi momenti più idilliaci. La frase è un memento mori, solitamente interpretata come "Anche io sono in Arcadia" o "Io sono anche in Arcadia", come pronunciata dalla Morte personificata. Comunque, il biografo di Poussin, André Félibien, la interpretò come "La persona sepolta in questa tomba è vissuta in Arcadia"; con altre parole, "la stessa persona che una volta ha goduto dei piaceri della vita, adesso giace in questa tomba". Questa lettura era comune nel XVIII e XIX secolo. Per esempio, William Hazlitt scrisse che Poussin "descrive alcuni pastori in una mattina di primavera, e giungendo alla tomba con questa iscrizione, 'Anche io ero un Arcade'. Attualmente, è l'interpretazione formale a godere di maggiore riconoscimento; l'ambiguità della frase è il soggetto di un famoso saggio dello storico dell'arte Erwin Panofsky (si veda la Bibliografia). In entrambi i casi, il sentimento era teso a rappresentare un ironico contrasto tra l'ombra della morte ed il solito fermo ricordo che le ninfe ed i cigni dell'antica Arcadia si pensava incarnassero.
La prima apparizione di una tomba con iscrizione memoriale (a Dafne) nell'ambientazione idilliaca dell'Arcadia si ha nelle Ecloghe di Virgilio V 42 e ss. Virgilio prende degli idealizzati "rustici" siciliani, che erano prima apparsi negli Idilli di Teocrito, e li pone nel primitivo distretto greco di Arcadia (si veda Ecloghe VII e X). L'idea fu nuovamente ripresa da Lorenzo de' Medici negli anni Sessanta e Settanta del XV secolo, durante il Rinascimento fiorentino.
Nella sua opera pastorale Arcadia (1504), Jacopo Sannazaro fissa la prima percezione moderna dell'Arcadia come un mondo perduto di felicità idilliaca, ricordata versi colmi di rimpianto. Negli anni Novanta del XV secolo, Sir Philip Sidney fece circolare copie del proprio romanzo Countess of Pembroke's Arcadia, che presto andarono in stampa. La prima rappresentazione pittorica del familiare tema del memento mori che divenne popolare nella Venezia del XVI secolo, resa in quel periodo più vivida dalla scritta ET IN ARCADIA EGO, è la versione del Guercino, dipinta tra il 1618 e il 1622 (ora nella Galleria Nazionale d'Arte Antica, a Roma), in cui l'iscrizione prende forza dalla presenza di un teschio (in primo piano, sotto il quale sono scolpite le parole). "Et in Arcadia ego" appare nei titoli di famosi dipindi di Nicolas Poussin (1594-1665). Si tratta di dipinti pastorali raffiguranti pastori ideali dell'antichità classica, raggruppati attorno ad una tomba austera. La seconda versione del dipinto, più famosa, che misura 122 per 85 centimetri, è nel Museo del Louvre, a Parigi, con il nome di "Les bergers d'Arcadie" (I Pastori di Arcadia). Il dipinto è stato di grande influenza nella storia dell'arte, e recentemente è stato associato con la pseudostoria del Priorato di Sion, resa popolare dai libri Holy Blood, Holy Grail e Il Codice da Vinci. La prima versione del dipinto di Poussin (ora a Chatsworth House) fu probabilmente commissionata come una rivisitazione della versione del Guercino. È dipinta in uno stile barocco più avanzato rispetto all'ultima versione, caratteristico dei lavori del primo Poussin. Nel dipinto di Chatsworth i pastori scoprono attivamente una tomba seminascosta dai rampicanti, e leggono l'iscrizione con espressione curiosa. Il modo di posare della pastorella, sulla sinistra, mostra un fascino sessuale, molto differente dalla più austera controparte delle versioni successive, che è contraddistinta anche da una composizione più geometrica e da figure più contemplative. La faccia somigliante ad una "maschera" della pastorella è conforme al canone classico del"profilo greco".

(fonte: Wikipedia)

Il fiore dell’apocalisse

Questo tipo di figura è presente in molte opere alchemiche e mistiche medievali. Una costruzione simile è presente anche tra i glifi di Giordano Bruno. Essa rappresenta l'Apocalisse nel suo significato di Rivelazione del Divino nell'Uomo. Il fiore (che scaturisce dall'interazione di quattro porzioni di cerchi) ha quattro petali, cioè i quattro elementi (Fuoco, Acqua, Terra, Aria) perfettamente armonizzati che in tal modo "rifioriscono" per generare l'Armonia. Inoltre ogni petalo ha anche valenza dei quattro esseri dell'Apocalisse (Uomo, Aquila, Toro e Leone), a rappresentare l'unità del Libro della Conoscenza (cioè l'Uomo LIBERO/LIBRO) che scaturisce dalla molteplicità delle scritture (gli elementi). Ne offre conferma Gioacchino da Fiore in una sua opera sull'Apocalisse, paragonabile al simbolo in esame, in cui il saggio pone i quattro cerchi, i quattro evangelisti o i quattro elementi, sui due anelli che rappresentano la perfezione nel dominio dei due mondi, cielo e terra, acque superiori e acque inferiori. Insomma una geometria armonica di perfezione della Creazione e dell'Uomo Divino. Questo simbolo inoltre, secondo Rudolph Koch, è un potente talismano contro le forze maligne.

(fonte: Adriano Forgione, direttore della rivista "Hera")


Il Nero, il Bianco e il Rosso, i nostri colori

Il Nero

La preparazione di tale tinta si conosce sin dal Mesolitico, sia essa da sostanze naturali o minerali varie; tra le più conosciute citiamo l'atramentum (dalla fuliggine di resina) e l'elephantinum (dalla combustione di avorio). Il fatto che denoti senso di oscurità in generale è supportato dalle origini del termine: dal latino, 'ater' come nero in senso fisico, assenza di luce e colore; 'niger' come nero brillante.

Il nero colore e simbolo del principio Per tutti i popoli l'immagine della Genesi è sempre stata associata a quella di 'Caos', senza luce, solo vuoto e tenebre; di conseguenza il nero è stato definito come colore della sintesi universale, dell'assenza e della presenza di ogni cosa, del mistero e dell'ignoto. (visione e teoria dell'Uovo Cosmico: massa concentrata di potenzialità di creazione)..."nero come colore matrice, utero gestazionale da cui nacquero i mondi"(e qui abbiamo numerosi esempi di racconti mitologici dove grotte e nascondigli sono luoghi in cui si comunica con gli dèi).

Il nero simbolo di fecondità L'immagine del nero aggiunta a quella dell'acqua si collega direttamente a quella di carica fecondativa, creativa, generatrice dell'Oceano Primitivo, con insita intelligenza della costruzione. Allo stesso modo la terra è simbolo matrice dell'esistenza terrestre ed umana (in Egitto Osiride ed in genere la figura maschile sono neri, simboli di fecondità, legati allo straripamento del Nilo e alle proprietà del limo).

Il Bianco Luce

Nell'antichità venivano utilizzati diversi termini, i quali avevano un significato generico di candore, bianco, luce. I materiali bianchi impiegati erano svariati: marmo, calce, argilla, argento (gli Egizi lo lavoravano in modo che non si ossidasse); anche nell'abbigliamento era presente il bianco, con tessuti in lino e cotone, sbiancati e decolorati; di tale colore erano anche molte sostanze per colorare, intonacare, pitturare (queste prendevano il nome della terra di provenienza).

Il bianco-luce colore e simbolo della luce Il primo atto della creazione consiste nella separazione dal buio del caos, si dà in tal modo il via al binomio luce-buio/giorno-notte. Le immagini ricorrenti sono quelle di un uovo rilucente, del volo di un uccello, di un fiore sacro dai cinque petali bianchi (loto); il bianco è l'immagine della forza centrifuga che aziona e consuma la materia, nella sua essenziale energia vivificante.

Il bianco-luce: epifania divina I fenomeni naturali violenti ed inspiegabili hanno fatto sì che gli uomini credessero fossero il mezzo attraverso il quale l'Eterno si manifestasse loro, per cui tra questi erano luci, lampi, raggi, fulmini, fuoco, apparizioni di fronte alle quali gli esseri umani non riescono a sostenere lo sguardo e ne escono sconvolti e atterriti. Negli astri Venere rappresentava un pianeta apportatore di luce e amore; nella scultura, soprattutto quella sacra, l'abbinamento bianco-oro e l'incarnato in avorio erano la massima rappresentazione del divino; e tutti divenivano raggianti in misura della loro partecipazione alla condizione divina (dèi, eroi, re, faraoni, principi). Per quanto riguarda l'iconografia il colore dell'incarnato maschile era bruno, mentre quello femminile era giallino, a connotare il bianco simbolo di nobiltà e bellezza femminile.

Il bianco-luce colore catartico e iniziatico, simbolo di purezza Le azioni che rendono puri gli animi sono anche fatti di bianco e di luce: ardere nel fuoco, ad esempio, fa ottenere l'immortalità, fa raggiungere il bianco divino; i lavaggi e le detersioni sono riti di purificazione; indossare vesti bianche significa candore, purezza, integrità di chi può accedere alla forza illuminante di ragione e verità; cibi e bevande bianche venivano consumati in certe circostanze (focacce, pane, farina, latte simbolo del nutrimento cosmico)

Il bianco-luce nell'uso funerario Secondo Romani, Greci, Fenici, Etruschi ed Egizi il defunto brilla della stessa luce degli dèi, per cui viene vestito di un manto bianco a tale manifestazione e rispetto; quindi la morte rappresenta il ricongiungimento agli Spiriti luminosi (es.: Campi Elisi pieni di luce); per gli Assiro-Babilonesi, invece, la morte è il ricongiungimento alla luce divina del Principio.

Il Rosso

E' il colore del fuoco, del sangue, degli slanci vitali e dell'azione. Chi lo ama è ottimista, deciso, impulsivo, combattivo, competitivo, passionale, entusiasta, estroverso, autonomo. Cerca il prestigio e vuole dominare, ha bisogno di affermarsi professionalmente.
Il temperamento è molto vivace, con una gran voglia di agire, coraggioso, cerca di vivere pienamente ogni attimo, fa tutto il possibile per affermarsi ricercando una posizione di primo piano. Prende le sue decisioni senza tentennare e lavora con vigore e potenza esecutiva. Dotato di un'intelligenza pratica e spirito di sacrificio.


I fiori della tradizione

Il Giglio

la tradizione associa il giglio e la sua simbologia al bianco. Nato da una goccia di latte caduta dal seno di Giunone, il giglio rappresenta la divinità: fiore mariano, emblema di perfetta purezza, dello spirito puro, non ancora corrotto e candore ma anche segno di nobiltà d’animo e fierezza. Conosciuto da oltre 3000 anni,è uno tra i più antichi fiori coltivati, diffuso nell'antico Egitto , ma anche in Cina e in Giappone.La specie più nota è il giglio bianco anche detto ''giglio di Sant'Antonio''.Il fiore di giglio dai sei petali bianchi veniva spesso rappresentato sui vasi e sulle terracotte cretesi d'epoca minoica.Il giglio da sempre simbolo di purezza e di bellezza.Si comprendde dunque il motivo per cui , nel XII secolo, quello che già veniva chiamato il fiore della Vergine, venne scelto da luigi VII, senza dubbio allo scopo di compiacere la sua pia sposa Eleonora d'Aquitania che tanto amava la Vergine, per rappresentare lo stentardo della famiglia reale:tre fiori di giglio d'oro rappresentati su un fondo azzurro.Questo fiore cosi celebre e celebrato, esemplare , quasi canonico, che è spesso stato scelto per indicare altri fiori, come ad esempio, il mughetto, chiamato ''giglio della valle'' o ''giglio di maggio'', l'amarillide anche detto ''giglio di San Giacomo''oppure la ninfea nota come ''giglio dello stagno''.E' sufficiente contemplare un giglio ma anche respirare il suo profumo forte e avvincente per comprendere da dove provengono quei simboli di purezza e di candore da un lato, e di prestigio, di maestà dall'altro a cui questo fiore da sempre vene associato.Pertanto ,se si vuole dar prova di nobiltà di cuore o di purezza di sentimenti,

La Rosa

La rosa è il simbolo per antonomasia della realtà in divenire, della manifestazione in fieri. La rosa in Occidente ed il loto in Oriente hanno lo stesso significato, cioè la produzione della manifestazione. La rosa, per la sua forma, si ricongiunge ai significati simbolici del pentacolo e della stella a cinque punte. Infatti, la rosa a cinque petali rappresenta l’elevazione spirituale dell’uomo. In quanto tale, rappresenta l’evoluzione, la transizione dallo stato profano allo stato sacro. La rosa con otto petali è simbolo di rigenerazione; per questo venivano portate sulle tombe degli avi e offerte ai defunti. Simbolo di soavità, di grazia, di bellezza, di perfezione e di purificazione nello spirito; è il fiore più espressivo, simbolo d’amore e di dolore. Inoltre la rosa, che con le spine cerca di difendersi dalla profanazione, simboleggia anche riservatezza e silenzio. La rosa è stata in ogni tempo l’emblema della bellezza, della vita, dell’amore. Secondo la mitologia greca e romana la rosa è nata dal sangue di Adone e da quello di Venere, per questo rappresenta l’amore che genera e riproduce la vita.
Ecate, dea degli inferi, era talvolta rappresentata coronata di rose a cinque petali: il cinque indica la fine di un ciclo (4) e l'inizio di uno nuovo (4+1). Simbolo anche della riservatezza una rosa stilizzata a cinque petali fu spesso utilizzata per ornare i confessionali con la scritta "sub rosa", sotto il sigillo del silenzio e della discrezione.

Il Mirto

La pianta di mirto è stata da sempre associata all'universo femminile e alla femminilità. Nell'antica grecia i nomi di molte eroine ed amazzoni avevano tutte la stessa radice: Myrtò, Myrsìne, Myrtìla. Myrtò era un'amazzone che aveva combattuto Teseo come Myrìne era la regina delle Amazzoni, in Libia. Si chiamava Myrsìne una profetessa del santuario di Dodona che per un responso nefasto morì tragicamente. Ma anche la mitologia greca e latina associano il mirto a divinità femminili infatti era la pianta sacra ad Afrodite. In particolare Ateneo narra un'antica leggenda che vede come protaginista Erostrato, fedele ad Afrodite che durante un viaggio in mare fu sorpreso da una tempesta. Allora la dea gli apparve sotto forma di piccole foglioline di mirto spuntate improvvisamente dalla sua statueta che Erostrato aveva con se. Questo fatto diede coraggio ai marinai che così riuscirono ad approdare in un porto sicuro e salvarsi. Una volta a terra Erostrato depose la statuetta con le foglie di mirto nel tempio di Afrodite ed intrecciò una corona di rami di mirto che da allora venne chiamata "Naucràtis" ovvero "signora delle navi". Il mirto è stato da sempre il simbolo della fecondità tanto che Plinio lo aveva soprannominato "Myrtus coniugalis" in quanto si usava nei bancheti di nozze come augurio di una vita serena e ricca di affetti. Nei canti cretesi rappresenta da sempre una pianta afrodisiaca tanto che si esorta chi vuole essere amato a raccoglierne un ramo. Il mirto è anche considerata una pianta di buon augurio e di buona fortuna tanto che quando si doveva partire per fondare una nuova colonia ci si cingeva il capo con una corona di mirto come augurio appunto di buona sorte. Il mirto però ha anche un significato funebre. Infatti nell'antica Grecia si raccontava che Dioniso, quando era sceso nell'Ade per liberare la madre Semele aveva dovuto lasciare in cambio una pianta di mirto. Da allora il mirto ha rappresentato l'oltretomba ed i defunti. Questa doppia valenza del mirto, da una parte pianta solare e ben augurale dall'altra pianta funebre, non deve stupire infatti la vita e la morte sono sempre stati un tutt'uno nell'universo e l'aspetto funebre non è da vedersi in senso negativo ma semplicemente come l'evolversi della vita.

La Spiga di grano

La pianta del grano simboleggia il ciclo delle rinascite. Poiché il cereale prima di nascere in primavera resta sepolto sotto terra, è l’analogia del passaggio dell’anima dall’ombra alla luce. Il grano è il simbolo della fecondità. Infatti nella mitologia Greca, Demetra la dea dei cereali e delle messi, è rappresentata con la fronte cinta da una corona di spine di grano. Demetra era l’iniziatrice dei misteri di Eleusi (questi misteri erano divisi in grandi e piccoli. I piccoli misteri erano una preparazione ai grandi misteri e si celebravano presso Atene. I misteri eleusini conferivano una sorta di noviziato. Dopo un certo lasso di tempo il novizio era iniziato ai grandi misteri, che erano tenuti di notte. In questi misteri le cerimonie erano collegate con l’evoluzione degli astri e il susseguirsi delle stagioni), illustrando l’alternarsi delle stagioni. Il ciclo vita-morte evocato dal grano traspare, con ugual significato, anche nell’immagine di Osiride, dio egiziano dei cereali e della morte.

L'Alloro

La pianta di Alloro nell'antica Grecia era considerata una pianta sacra ad Apollo perchè secondo la leggenda, in essa fu trasformata la ninfa Dafne per sfuggire al dio che la inseguiva e così lo stesso Apollo, proclamò questa pianta sacra al suo culto e segno di gloria da portarsi sul capo dei vincitori. I greci anticamente chiamavano l'Alloro Dafne, in ricordo della Ninfa. Considerata pertanto una pianta nobile per eccellenza era normale coltivarla nei giardini imperiali e gli imperatori romani si cingevano la testa di Alloro durante i trionfi e le cerimonie come se si trattasse di una preziosa corona. Questa usanza si è protratta fino al Medio Evo e nel Rinascimento ma ad essere incoronati o "laureati" come si diceva, non erano più i sovrani ma i giovani poeti ed i letterati.. Il termine attuale di "laurea" deriva proprio da questo riconoscimento. In molte leggende popolari, piantare una pianta di Alloro davanti alla porta di casa allontanerebbe i fulmini. Questo deriva dal fatto che Giove avrebbe decretato che questa pianta fosse preservata per rispetto a Dafne.