Dicono di me

Maria Cristina Canova - insegnante, pittrice - Padova

Potrei stare davanti ai suoi quadri per ore a osservare la molteplicità dell’uno.
Variazioni infinite di colori, sfumature, linee, forme.
Un universo plurale da cui emergono misteriose creature dell’immaginario, che pian piano si fanno riconoscere.
Animali, becchi, occhi, orecchie, che si svincolano dall’indeterminatezza delle forme.
Volti e figure affioranti dalle tessere di un puzzle o inscritte in figure geometriche o in sfere o in altre forme ancora.
Compenetrate, sormontate, emergenti, sfuggenti, avviluppate, sperdute nell’affollamento o in cerca di evasione, tentano e stentano ad uscire, affiorano.
Figure nelle figure, forme nelle forme, colori nei colori. Scatole cinesi. Matrioske.
Diventano occhi, digrignano i denti.
Materia delineata, materia informe.
Pesci guizzanti, uccelli, farfalle e fiori variopinti, meduse tentacolari, maschere, corpi, fantasmi, crisalidi.
Un universo brulicante, che lotta, spinge, appare e scompare, pulsa, colora, sfuma, vive.

Emanuela Bonaga, pittrice. Roma 19/02/2010

Bottai osserva il mondo.

Osserva il suo mondo. Osserva il mondo onirico, quello interiore e quello naturale esterno a lui e li mette a confronto dentro un quadro.
Ne riconosce la reciproca definizione e li organizza in un insieme concatenato e intricato in cui inserisce, a tratti, tempo e spazi secondo la lezione cubista. Dei suoi mondi non perde mai il controllo e tra i suoi mondi non lascia spazi, non disegnati, di mistero.
Così chi si trova a incontrare questi suoi percorsi di riflessione è risucchiato dal succedersi di linee, oggetti, di occhi e di pinne, e condotto in un labirinto razionale, cerebrale e fantastico a cercare l’origine, la ragione, il senso del fluire delle immagini.
Tutto occupa un posto apparentemente definito e apparentemente non modificabile pena la dissoluzione dell’impianto narrativo. In realtà non vi è assolutamente senso di costrizione nello scorrere dello sguardo da una figura all’altra, tutt’altro. Le figure sono lì ritratte su una superficie, affollate, accalcate, come una folla in una piazza stracolma di manifestanti. Ma in qualsiasi momento qualcuno può decidere di spostarsi, sfuggire, fuggire, allontanarsi, mimetizzarsi, nascondersi. E si intuisce che sarà un movimento fluido, mai a strappi, a scatti, lacerazioni.

Che quel che abbiamo davanti sia la rappresentazione di una meditazione e che, in quanto tale, essa avvenga su un piano (fuori dello spazio che è storia e tempo) e che quel piano sia la tela, un quadro, Bottai ce lo rimarca attraverso un artifizio presente in tutte (tranne una) le opere che ho potuto osservare, ed è la scelta che egli attua di terminare (o iniziare) la descrizione ben prima del perimetro esterno del quadro. Quello spazio vuoto, bianco o colorato, che definisce il “disegnato” prepotentemente richiama la ragione del supporto su cui il disegnato si colloca. Stiamo guardando un quadro, un disegno, prendiamo le distanze senza farci risucchiare in una realtà onnicomprensiva. Lo spazio dei mondi di Bottai resta distinto dal nostro.

Però c’è un’opera, tra quelle che ho esaminato, in cui questa struttura grafica e narrativa, così prepotente e definita, non può essere declinata in una costruzione alienata dalla natura, dalla realtà.
Vi si narra di una emozione intensa che ha impedito il ripetersi del consueto modus narrativo. E’ l’opera intitolata “i guardoni”. Qui il racconto riempie completamente di sé il “luogo” definito dal supporto del quadro e vi compare l’indicazione di uno spazio reale, umano, a contenere la narrazione.
Sotto un cielo plumbeo la città industriale entra, collocata in lontananza, sul bordo del quadro a definirne immediatamente attraverso la profondità prospettica che essa determina, la dimensione storica. La città fabbrica, confinata in luogo estraneo, funge da contrappunto (anche da un punto di vista cromatico) alla cornice naturale definita da un bosco intensamente verde. Una quinta naturale che appare come un muro che distacca completamente dal resto del mondo, un qualcosa che delimita -costruendolo nell’occhio di chi guarda- lo spazio “altro” in cui si svolge il “racconto”, dando anche lo spunto per la scelta sostanzialmente monocromatica con cui è realizzato tutto il dipinto. In questo spazio appartato e naturale – in cui però il colore si va perdendo- emergono legati dal groviglio dei pensieri e dei cespugli del bosco innumerevoli corpi, fantasmi di umani, di animali e di cose, sentimenti di pena e di orrore che ruotano, come in un girone infernale, attorno alla farfalla che, delicata ed esangue, occupa il centro della composizione. Come il protagonista che giace nudo, e che appare essere alla base dell’impianto narrativo. Come il volto stravolto che all’improvviso appare accanto alla farfalla Come i corpi, appena accennati, che compaiono molteplici e nudi ad affollare la narrazione come in un ricordo. Come i bianchi volti deformi che si inseriscono ovunque, richiamando alla mente i volti della disperazione umana ed animale di Guernica di fronte alla violenza. Umana anche quella.

Maria Teresa De Nardis - insegnante - Pisa

Per capire le opere di Paolo bisogna conoscere -o meglio, riuscire a percepire- la sua personalità, la sua immensa cultura, le sue problematiche.
Lo stesso smarrimento, che coglie nel contemplare i suoi quadri, prende quando si tenta di analizzare il suo carattere complesso, poliedrico e multiforme.
Al contempo l’elementarità dei soggetti, l'essenzialità del tratto, rispecchiano l'uomo concreto, spontaneo, direi primitivo nelle sue espressioni quotidiane.
Ma la scelta dei colori, il groviglio delle figure, la loro continua rielaborazione, rivelano la complessità del suo mondo interiore e la ricerca di mettere ordine nei pensieri e nelle sensazioni, senza peraltro creare gerarchie.
Le sue opere non danno serenità -non devono darla- ma forniscono lo stimolo a compiere insieme a lui un percorso, a volte doloroso a volte lieve, nella percezione della realtà.

Enrico Segré - Grafico - Milano

Quest'uomo è pieno di ironia e di colori vivaci allegri primaverili.
Ha un segno particolare, molto personale, cosa che, a mio avviso, è la prima caratteristica indispensabile di un pittore. Perché non si possa dire che "dipinge come XY".
No, Il Bottai ha un segno personalissimo.
Mi richiama, ma molto alla lontana, un pittore cileno, Roberto Matta Echaurren.
Per altri versi mi ricorda un francese, Andre Masson.
E anche Joan Mirò, in alcune sue cose.