Riflessioni

LA PERCEZIONE
Riflessioni di Paolo Bottai

Intendo sistematizzare alcune considerazioni che attengono ad uno studio che sto compiendo sulla "percezione" .
Per comprendere adeguatamente la questione occorre partire utilizzando alcune definizioni che sono necessarie per capire le conclusioni.
Mi sono rifatto quindi alla filosofia empirista e in particolare a Locke, Hume e Berkeley: essi sostenevano che la nostra coscienza è priva di contenuto se prima non abbiamo avuto esperienze sensoriali. In sostanza essi fanno derivare tutta la nostra conoscenza del mondo da ciò che i sensi raccontano Aristotele fu il primo empirista, in opposizione a Platone, che sosteneva "non c'è niente nell' intelletto che non sia stato prima nei sensi". Gli empiristi formularono questa ipotesi in opposizione alla filosofia razionalista imperante nel '600 la quale sosteneva che l'uomo possiede idee innate presenti nella sua coscienza prima di qualsiasi esperienza sensoriale. "
Ho successivamente studiato i vari autori che hanno affrontato le questioni della percezione: Wittgenstein, Gibson, Kuhn, Hanson, Popper ecc. arrivando a questa conclusione: Se riteniamo che la percezione dipenda da regole inferenziali e dalla conoscenza, non è più possibile sostenere che sia correlata direttamente alla realtà che percepiamo. Se la percezione si fonda sulle esperienze passate memorizzate e se, anzi, sono proprio queste esperienze passate che costituiscono gran parte di ciò che sperimentiamo nel presente, allora la visione del realismo diretto non è proponibile.
Secondo questa proposizione il percorso verso la conoscenza è un percorso lineare in avanti, fatto di tappe ed esperienze. In pittura chi si ostina a riprodurre il vero appare come un primitivo senza alcuna esperienza e senza alcuna conoscenza delle esperienze che si sono compiute in quel campo, dei cambiamenti, delle evoluzioni. Evoluzioni e cambiamenti che ci sono stati nel mondo filosofico e scientifico e quindi anche nel campo artistico.
Ho citato la scuola empirista perché, come dicevo più avanti, tutta la conoscenza deriva dai sensi, e la percezione costituisce anche la base dell'empirismo ed ancora oggi del progresso scientifico. Progresso scientifico che formula ipotesi partendo appunto dalle percezioni che, come dicevo, sono frutto dell'interazione della conoscenza e dei processi inferenziali.
Ho completato la mia riflessione anche su un altro aspetto che mi sembra rilevante per la comprensione degli atteggiamenti delle persone: "L' attenzione ". Infatti , non tutte le cose che abbiamo di fronte , ci colpiscono con uguale chiarezza. Alcune cose rimangono come sfuocate, altre non sono neppure avvertite. L'attenzione in effetti è il fenomeno psichico di maggiore importanza che ci consente di cogliere le parti del nostro ambiente, le caratteristiche degli oggetti ecc.
L'attenzione è di due tipi :
L'attenzione volontaria: dipende da fattori interni all'individuo.
L'attenzione involontaria: dipende da elementi propri dello stimolo e che lo rende rimarchevole.
Occorre anche tenere conto di un'altra particolarità che interviene nel processo cognitivo : "L'interesse", in genere suscitato da aspetti che hanno a che fare con la sfera delle attività, passioni, hobbies, necessità ecc.
Alcune altre considerazioni sulla percezione: in particolare modo serve definire cosa si intenda appunto per percezione. Quel processo mediante il quale noi otteniamo informazioni dal mondo che ci circonda, informazioni che noi abbiamo attraverso gli organi di senso.
Per percepire qualcosa occorre che questo qualcosa esista e che ci siano appunto le condizioni per l'approccio con i nostri cinque sensi.
I fatti della percezione, per la lunga e continua consuetudine che abbiamo con essi, tendono ad apparirci come un fenomeno ovvio ed interamente chiaro (abitudine a vedere il mondo in un certo modo, omologazione, convinzione che esista solo quel tipo di realtà, fissità psicologica , ecc). Il mondo fisico per non parlare di quello psichico, non è sempre quello che viene percepito.

MISURA E ORDINE

E' stata per prima la scuola pitagorica, con il suo mitico fondatore, a fare le prime riflessioni sul bello. Essa trasferisce l'ideale della misura da un piano religioso a quello filosofico, prendendo a modello la natura, l'universo considerato nei suoi fenomeni di ciclicità e di uniformità. Ha cosi indicato alla cultura occidentale per millenni i più chiari e persistenti criteri di bellezza e del suo contrario. La bellezza del kosmo, la precisione di questo assetto spontaneo, doveva essere trasferita sulla Terra nella società degli uomini per insegnare loro a separare il buono dal cattivo, il vero dal falso, il bello dal brutto. Dal pensiero di Pitagora, culla del razionalismo occidentale, si sviluppa quella trinità tra vero bello e buono che ha dominato la nostra civiltà. Se il mondo è governato da leggi che l'intelletto e i sensi sono capaci di cogliere e di tradurre reciprocamente, esse sono allora simultaneamente belle e vere, basate su misure calcolabili, armoniche e simmetriche. Ciò che e vero è dunque bello, ma insieme anche giusto e buono cosi come ciò che è falso è brutto e cattivo. Il buono e bello retto dai principi della giusta misura, dall'equilibrio complessivo dalle leggi della virtù che è "armonia".
L'idea di un collegamento tra il kosmos e la polis, tra il mondo astrale e quello terreno, verrà rivitalizzandosi in periodo umanistico e rinascimentale (proporzioni cosmiche riprodotte mediante segmenti nel Palazzo di Urbino o il trattato di L. Pacioli sulla divina proporzione). Dopo una fase barocca di relativo rifiuto, le scoperte dell'astronomia e della fisica provocano una nuova saldatura tra verità bontà e bellezza tant’è che lo stesso Newton dice: è mai possibile che l'occhio sia stato progettato da Dio senza la scienza dell'ottica?
Il primo a mettere in crisi le teorie Pitagoriche è Eraclio, che sostiene al contrario che non vi è ordine ed armonia ma soltanto causalità. Successivamente anche per Platone il vero ed il buono perdono la loro immediata coincidenza con il bello. Il monopolio della verità e del bene passa alla parte razionale dell'anima mentre il bello, per quanto riguarda l'arte, riflette la cangiante, irrequieta, inconsapevole parte a-razionale dell'anima. L'arte dà ai fantasmi dei desideri consistenza e credibilità sottratte alle regole del bene e della verità, rappresentando cosi i luoghi dell'anima non rappresentabili, non afferrabili dall'intelligenza. Il bello, perdendo le sue caratteristiche di calcolabilità intrinseche nella armonia e nella proporzione, finisce per sottrarsi a criteri oggettivi di giudizio. Si affida a regole soggettive e non facilmente definibili, facendo cadere la barriera tra la forma e l'informe, il visibile e l'invisibile, il suono ed il rumore. Il bello tende a trovare cosi uno spazio nell'ambito del gusto o dell'immediatezza del sentire, in cui l'elemento di vaghezza cerca un difficile ancoraggio negli standard di gusto che abbiano carattere di universalità o siano condivisibili da parte di una comunità sottoponibile a una educazione estetica. L'onnipervasivo paradigma dell'oggettività e della calcolabilità del bello tramonta teoricamente con la vittoria conclamata dei diritti del "giudizio estetico". Separandosi dall'intellegibile la bellezza (e l'arte) si trasformano in apparenze che non riguardano le verità oggettive bensì unicamente il nostro modo soggettivo di rapportarsi ad un oggetto, l'elevazione estetica del nostro sentimento di piacere.
Cosa è che manca al bello per essere tale una volta soddisfatte tutte le regole formali. Il primo a trovare una formula soddisfacente è stato Petrarca: egli ha coniato l'espressione nescio quid "non so che"; manca quel non so che tipico del genio. A partire dal 600 l'attività artistica si sposta gradualmente non solo al di la del vero e del falso ma anche del bene e del male; viene sempre più collegata all'immaginazione ed all'intelletto e con ciò alla creatività. Allontanandosi dall'idea di misura evidente, l'età moderna procede dunque verso l'irrazionalità, l'arbitrarietà e l'indefinibilità del bello, rischiando di rovinare ogni sua perfezione? O cerca una bellezza nuova strana e diversa proprio perché più complessa?