A Mariapia Crisafulli la Targa Officina Roversi per la Poesia 2025: la serata conclusiva a Bologna il 29 novembre
articolo-intervista di Isabella Fleri
Tra poesia, storia e quotidiano: l’autrice racconta la genesi del suo immaginario e il ruolo che luoghi, letture e memoria hanno nella sua scrittura
La Rassegna Nazionale delle Nuove Poetiche d’Autore – Targhe Officina Roversi arriva alla sua serata conclusiva il 29 novembre al Teatro Testoni – Ragazzi di Bologna. Dopo oltre 500 proposte giunte da tutta Italia e una selezione che ha portato 25 artisti sul palco del DiMondi Festival, la giuria nazionale composta da oltre 60 promotori culturali ha scelto i vincitori delle tre categorie principali: Mariapia L. Crisafulli per la Poesia, Ludovica Pasca per la Canzone e Nino Scaffidi per il Testo per Musica. Una Targa alla Carriera sarà assegnata a Gaetano Curreri, il quale ha musicato diversi testi di Roberto Roversi.
Le Targhe Officina Roversi non sono pensate come premi competitivi, ma come riconoscimenti dedicati a chi utilizza la scrittura – poetica o musicale – per contribuire al rinnovamento culturale. La rassegna nasce per onorare la visione di Roberto Roversi, poeta, intellettuale e figura centrale della cultura italiana del Novecento, intimamente legata a Bologna, che ha sempre difeso la parola come strumento di libertà e incontro.
Nel corso della serata saranno conferite anche tre Targhe Anser anser a Emma Nolde, al Collettivo Wu Ming e all’Officina delle Arti Pier Paolo Pasolini. L’ingresso è gratuito con prenotazione obbligatoria.
Abbiamo incontrato Mariapia Crisafulli per una conversazione ampia e autentica: dal suo sguardo sull’umano ne La vita là fuori, al legame tra poesia e storia, fino al ruolo di persone, luoghi e memoria nel modellare una voce in continua evoluzione.
Ne “La vita là fuori” c’è una profonda ricerca sull’umanità e sull’umano. Quindi, il motore della tua scrittura è principalmente l’osservazione dell’essere umano?
Assolutamente sì. Gli occhi sono rivolti verso l’esterno. Certo, chi scrive, chi fa arte, tende a leggere il mondo attraverso il proprio filtro, guardando prima a se stesso; è un primo step, viene naturale. Ma, poi, bisogna uscire fuori e incontrare l’altro in quanto “altro da sé”. Lasciarsi ispirare, attraversare, mettere in discussione. Questa consapevolezza la devo alla mia vita da pendolare, quando studiavo a Catania. Prendere il treno all’alba è un’esperienza viscerale, in tutti i sensi. La conclusione a cui sono arrivata è che ciascuno possiede in sé un collettivo che lo accomuna imprescindibilmente agli altri. È a quello che dobbiamo guardare per comprendere fino in fondo il nostro essere umani tra altri umani, ma, per contrasto, anche il nostro essere singoli unici e irripetibili. È questo l’Umano in cui credo, che vado a cercare con un fare ai limiti del voyeuristico.
Come nasce “La vita là fuori”?
È arrivata da sé: considera che in pochi mesi ho scritto ciò che mi nuotava dentro da anni. Come ti dicevo, il mio sguardo mi ha portato spesso là fuori. La mia formazione universitaria è di impronta storico-politica e, anche a livello letterario, sentivo di dover mettere su carta ciò che provavo quando mi interfacciavo con tutto l’orrore che la storia ha incontrato, per elaborarlo a livello emotivo, esistenziale. Conoscere non sempre si traduceva in capire e, tantomeno, in comprendere. Avevo bisogno di scriverne. Poi è arrivato lockdown e il fiume, finalmente, è esondato. Forse avevo bisogno di quella distanza affinché la voce potesse scorrere in maniera autentica, disinteressata, liberatoria. A un tratto c’era solo Mariapia e il suo flusso di incoscienza davanti a Word.
Il tuo percorso di studi è iniziato col liceo classico, successivamente laurea triennale in Storia, politica e relazioni internazionali e magistrale in Scienze storiche e orientalistiche. Pertanto: c’è poesia nella storia?
Certo. Se c’è poesia nell’umano, nella vita, è naturale che ce ne sia nella storia, la quale, come insegnava un padre spirituale del metodo storiografico – Marc Bloch – non è altro che “la scienza degli uomini nel tempo”. Sulla scia di Bloch io mi interesso soprattutto della storia con la s minuscola: non la storia dei grandi personaggi o dei grandi avvenimenti, ma quella delle persone, legata alla loro vita quotidiana, alla società, alle singole storie individuali che vanno a costruire, tessera dopo tessera, il grande puzzle della storia collettiva, che racconta di tutti noi.
Come nasce l’interesse per la poesia e come mai hai optato per un percorso universitario apparentemente distante dalla letteratura?
L’interesse per la poesia nasce da un’esperienza puramente personale, affettiva: grazie a mia nonna Lucia, da cui prendo il secondo nome (La L. non è un vezzo). Mia nonna non stava bene, era su una sedia a rotelle, e passavo molto tempo con lei, che non mi raccontava favole, ma recitava le poesie di Carducci e Pascoli. A due anni non riuscivo ancora a fare discorsi di senso compiuto, ma ripetevo poesie a memoria (raccontano i miei). Perché non ho fatto lettere all’università, data la passione per la poesia? Leggere poesie non era uno svago intellettuale, ma un bisogno emotivo – credo sia colpa dell’imprinting. Per questo mi era inconcepibile trasformarlo in studio finalizzato (esami, futuro professionale ecc.). Poi c’è da dire che volevo studiare e approfondire anche altro: mi appassiono a molte cose e cause, perdendo spesso il baricentro tra l’altro (ma questa è un’altra storia). Sì, da quando sono alla Macabor ho iniziato a occuparmi di critica letteraria, quindi a dover lavorare filologicamente sui testi. Ma anche lì rivendico sempre il mio statuto di lettrice più che di “studiosa”: il mio approcciarmi a un autore e alla sua opera, per quanto serio, è dettato sempre da un moto dello spirito e per lo spirito. Il resto ne è una conseguenza.
Il trasferimento a Bologna ha cambiato la tua scrittura?
Ultimamente scrivo poesie molto brevi e dense, quasi dei lampi che mi arrivano per un saluto soltanto. Un amico mi ha fatto notare che forse dipendeva proprio da Bologna. Lui faceva riferimento alle scritte sui muri, sa che amo passeggiare sotto i portici e soffermarmi a leggerle. Mi affascinano più come materiale antropologico che letterario, ma magari mi hanno ispirato davvero, non posso escluderlo. C’è da dire, anche, che adoro gli haiku giapponesi e ne leggo a bizzeffe. Quel che è certo è che Bologna ha cambiato la mia lettura. E qui vorrei ricollegarmi alla poesia quale bisogno emotivo, se posso. Di giorno frequento le lezioni, studio per preparare gli esami; con passione, certo, ma soprattutto con rigore e metodo. Ma la sera, prima di andare a dormire, leggo sempre una poesia, un qualche verso. Senza dover per forza capire, ricordare, commentare. È diventato un rituale, un po’ come la carezza della buonanotte.Insieme ai mandala, mi aiuta a staccare dal mio quotidiano e in qualche modo a riconnettermi con quella parte di me che il tran tran del giorno talvolta comprime (e mi fermo qui circa i tempi moderni). La poesia non cambia la vita, ma la rende più sopportabile: aiuta a sentirsi più compresi e, se vogliamo, più comprensibili (a noi stessi, intendo). Come diceva Pavese nostro, la letteratura stessa è “una difesa contro le offese della vita”.
Nel 2024 hai pubblicato “Bravi maestri”, una raccolta di saggi.
Sì, si tratta di tre brevi dissertazioni dedicate a tre autori cui devo molto per la mia formazione: Pier Paolo Pasolini, Herbert Marcuse e Maria Grazia Calandrone. Bravi maestri è nato su impulso di Bonifacio Vincenzi, il mio editore. Lui sapeva che, negli anni, avevo lavorato a dei testi critici che mettevano insieme letteratura, arte, sociologia e impegno politico. Sapeva che ci tenevo molto a quelle mie ricerche, e mi ha invogliato a pubblicarle in un’edizione molto graziosa, tra le noisette Macabor. Metto la Macabor ovunque, lo so, ma ormai è parte di me a livello profondo. Prima che autori noi macabordiani siamo persone, un po’ fuori di testa, che si vogliono bene e che fanno letteratura con serio entusiasmo.
Parliamo di cinema.
Il cinema è stato per me un amore “maturo” (rispetto alla poesia, intendo). Ma non per questo meno travolgente. In particolare amo le sceneggiature; mi affascina vederle prendere vita sullo schermo: nelle parole, nei gesti, negli sguardi dei personaggi.
Tre titoli che ti hanno spiazzato?
Questa è difficile. Sono stati diversi. Ti dico i primi tre che mi vengono in mente. Un film visto a scatola chiusa grazie a un amico: 8½ di Fellini; uno dei film più recenti che mi ha colpito è, invece, Il tempo che ci vuole. E poi non posso non citare Opera senza autore. “Grasso e feltro”, ripete il prof. d’arte raccontando la propria storia al protagonista. L’arte cosiddetta “autentica” non può che sgorgare dalla propria ferita personale.
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